GrooveBack Magazine 001

Quando abbiamo deciso di dare vita a questa nuova rivista, il nostro primo pensiero, scontato e inevitabile in questi casi, è stato quello di sperare che sollevasse un certo interesse nei confronti del mondo dei cultori della buona musica, che fosse classica, jazz, rock e d’autore, e di quello di coloro che vogliono ascoltarla con la dovuta qualità e fedeltà di riproduzione. Una rivista che, a differenza di altre del settore già presenti sul mercato, fosse per il lettore del tutto gratuita, scaricabile in formato Flipbook, PDF ad alta risoluzione, oppure stampata attraverso un prodotto di nicchia, elegante, lussuoso, destinato volutamente a coloro che desiderano collezionare un periodico di pregio, destinato a restare nel tempo.

STORIE | MUSICA | ASCOLTI | HI-FI

MILESDAVIS at Café Bohemia

The Velvet Underground & Nico che in quel lontano 1967 hanno osato l’inosabile.

Giorgio Gaslini dieci anni senza il “Re del jazz” Alberto N.A. Turra la musica è un “urto” fisico Giovanni Legrenzi testimonianza di un sapere segreto

SUBLIMA - JIVA LA SOUND MOON 240I

CBH-MUSIC DSD & HI-RES AUDIO SAMPLER VOL.2 – in questo numero l’album digitale > download gratuito

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Editoriale

di Enrico Merlin

Ed eccoci pronti per un nuovo viaggio nel mondo dei suoni. Perché in un momento storico come questo abbiamo sentito il bisogno e la voglia di avviare una nuova rivista che si occupi di musica e della sua riproduzione? In fondo, il mercato della musica riprodotta è cambiato drasticamente contraendosi, in quantità, in proporzioni inimmaginabili, se paragonate solo a una ventina di anni fa; il solo scriverlo sembrerebbe un’inutile ovvietà, ma al tempo stesso non si può sempre e solo puerilmente sentenziare «Una volta era meglio… La musica degli anni ’70 non esiste più… Oggi nessuno ha più il senso del gusto, ecc.». Tutte frasi che, almeno da un certo punto di vista, sono però effettivamente corrispondenti a una possibile percezione della realtà, ma che al contempo sposano un’idea che da sempre si manifesta, quando ci si confronta con l’arte. Ricordo che Mozart e Beethoven erano considerati dei folli da gran parte degli appassionati e musicisti, nelle rispettive epoche. E molto di quelli che erano arrivati, anche tardivamente, ad amare Mozart, spesso non riuscivano a comprendere ciò che Beethoven stava sperimentando qualche anno dopo. Ciò non significa però nemmeno che ogni novità sia necessariamente meglio del passato, ma ineluttabilmente la storia ci insegna che senza un passo fuori dal sentiero staremmo ancor ascoltando canto gregoriano. E allora dove si colloca il punto corretto di attenzione e osservazione, ammesso che esista? Lo stesso si può dire della riproduzione della musica registrata. Ma davvero, dopo oltre un secolo di evoluzione e ricerca tecnologica nel mondo dell’audio, c’è ancora qualcuno che crede che possa esistere un reference assoluto? Quindi davvero c’è qualcuno che può coerentemente pensare che se davvero esistesse la possibilità di “un’alta fedeltà” che riproducesse un evento sonoro in modo indistinguibile dall’originale, nessuna azienda sul pianeta sia mai riuscita a realizzarla malgrado la tecnologia a disposizione? Per quale ragione quindi migliaia di progettisti e costruttori continuerebbero a cercare nuove soluzioni? Perché esisterebbero diverse filosofie sonore? Eppure moltissimi appassionati pensano (alcuni ne sono proprio certi) di sapere come dovrebbero essere fatte le cose. Da molti anni si parla spesso di effetto Dunning-Kruger. Ecco, credo che nel campo dell’arte, e in particolare dell’audiofilia, ci si trovi di fronte a una delle sue massime manifestazioni. Ed è anche facile spiegare perché, ma non è questo il momento… ma ci torneremo sopra sicuramente, statene certi. Perché quindi in una situazione come questa dare vita al progetto GRooVE back . Per quanto possa apparire assurdo, proprio per questo.

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Nel Cambridge Dictionary leggiamo la seguente definizione:

“ “

«Get your groove back» To start to be happy, confident, or successful again after a difficult period.

ovvero:

Bene, noi crediamo che sia importante non solo preservare ciò che è rimasto, ma provare a mettere in movimento nuovi ragionamenti e connessioni, ripartendo dal noto. La redazione è composta da professionisti che condividono questo spirito e che non temono l’innovazione e il confronto. Anzi ne fanno vanto e ragione dello scrivere. Quando avevo un negozio di dischi in quel di Trento (dal 1985 al 2000, per due anni come dipendente e successivamente come co-titolare) ero arrivato ad accettare (con una certa dose di ironia) il fatto che la maggior parte degli appassionati e clienti abituali fossero riassumibili in tre macro-categorie: A. Quelli che ascoltano le registrazioni (e quindi gli impianti di riproduzione) B. Quelli che ascoltano i dischi C. Quelli che ascoltano la musica nei dischi Alcuni appartenevano contemporaneamente ad un paio di categorie soprattutto nelle configurazioni A+B e B+C, ma pochissimi cercavano (all’epoca, almeno) di unire i tre mondi, quasi essi appartenessero ad universi paralleli. E così melomani (molti musicisti appartengono a questa categoria) ascoltano registrazioni in mp3 con le casse del computer o con auricolari da tre euro. Multimilionari ascoltano la 47a edizione di «Dark Side of the Moon» con l’impianto appena rinnovato disquisendo con gli amici fidati delle differenze abissali tra cavi d’alimentazione a 4 cifre. Altri ascoltano il cane in «Amused to Death» alla ricerca della fase perfetta. Altri cercano l’ennesima versione Live dell’artista preferito, registrata con un walkman a cassette, a 100 metri dal palco, in quel lontano 1986… ma è sicuramente la miglior versione mai ascoltata. Per non parlare, grazie all’evoluzione dei sistemi domestici del trattamento del suono e di registrazione, dei soggetti «Do It Yourself». Quelli che a casa trasferiscono su dominio digitale un vecchio LP, passando magari per una scheda audio economica e, giocando con compressori e equalizzatori, si auto-restituiscono una versione alternativa del mastering che a detta loro è «infinitamente superiore a qualunque edizione in commercio» (vale anche per gli autocostruttori). È vero, a volte avvengono dei miracoli, ma il più delle volte ci troviamo di fronte alla sindrome del «vino fatto in casa». Mio padre ad un certo punto si produceva il vino nella sua cantinetta, acquistando l’uva Per ricominciare ad essere felici, fiduciosi o ad avere successo dopo un periodo difficile.

Enrico Merlin (ph Maurizio Andelini).

da un amico… Per lui era sublime, perché tutto naturale e perché «lui» sapeva essere così… Purtroppo, il resto del mondo, alla degustazione, aveva opinioni diverse, ah ah ah. Ovviamente non esiste l’approccio giusto per tutti. Ognuno poi con il suo tempo e le sue disponibilità economiche può farci ciò che vuole, ma dovrebbe essere sempre cosciente che la sua è «una posizione», non la realtà; al massimo, nel migliore dei casi, può configurarsi come una delle possibili verità, che però possono essere accertate solo attraverso un confronto scevro da eccessi di ego o feudali. Personalmente credo che la cosiddetta tifoseria da stadio sia sempre e solo dannosa, se si cerca una qualunque verità. E attenzione, ricordiamoci che realtà e verità possono essere sinonimi, ma per un’unica realtà possono esistere più verità a seconda del punto di vista, del tempo, delle condizioni, del pregiudizio, della cultura, della competenza e di infinite altre sfumature caratteristiche dell’osservatore. In questi discorsi si inserisce prepotentemente anche la questione del «gusto personale», ma anche su questo argomento torneremo prossimamente. A GRooVEback amiamo la musica, che sia dal vivo o registrata, che sia riprodotta da un impianto domestico o in un concerto. Vorremmo cercare di riportare l’attenzione sulle questioni fondamentali, ricordando ciò che diceva Philip K. Dick e cioè che la realtà è sempre una questione di percezione. Anche una martellata su un dito, aggiungo io. Di assoluto esistono ben poche cose: la respirazione, il battito cardiaco e poche altre che però adesso non mi vengono in mente, ah ah ah... Racconteremo di punti di vista, mediati dal confronto, nella speranza di incuriosire e, magari, smantellare alcune certezze (se basate su postulati personalizzati e non sostenibili in un confronto serio e costruttivo). La storia dell’arte ci insegna moltissimo. Non fermiamoci alla superficie, perché qualunque superficie di questo fantastico poliedro è pur sempre e solo una superficie.

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Sommario 5 Editoriale

10 Il nostro CD da scaricare: passo dopo passo, curiosità dopo curiosità 18 Disco in copertina: Miles Davis Quintet Complete Café Bohemia Bandstand 20 Maurizio Pollini

24 The Velvet Underground & Nico. 1967 28 L’arte compositiva di Giovanni Legrenzi 36 “Voglio una vita spericolata”: Henri Desmarest 42 Parole in musica 46 Dieci anni senza Giorgio Gaslini 52 Julian “Cannonball” Adderley 54 PROJECT ONE, da Velut Luna un confronto tra i formati

56 Una chiacchierata con… Alberto N.A. Turra 64 Vanità. Decisamente il mio “peccato preferito” 66 La musica nata dagli uccelli 72 Nicola Porpora, un napoletano alla conquista di Venezia 78 Viaggiare nel tempo con John Scofield 82 Karl Weigl, il cantore della Finis Austriae sul solco di Schönberg 88 Armand-Louis Couperin, una brillante allieva e la Querelle des Bouffons 94 Meitner Audio MA3 100 LYNGDORF TDAI-1120 106 MOON 240I Amplificatore integrato 110 La lacca Jiva della Sublima: per aspera ad astra 116 Cavi sbilanciati RCA EVO1 & Cavo USB EVO1 de LA SOUND 122 Remastering, questo sconosciuto…

ABBONAMENTI: abbonamenti@grooveback.zone PUBBLICITÀ: adv@grooveback.zone SCRIVICI: groveback@grooveback.zone

DIRETTORE EDITORIALE: Massimo Corvino DIRETTORE RESPONSABILE: Andrea Bedetti Hanno collaborato a questo numero: Giovanni Acciai, Andrea Bedetti, Luca Ciammarughi, Ginevra Corvino, Igor Daniele Ebuli Poletti, Marco Fanciulli, Edmondo Filippini, Max Ishiwata, Marco Lincetto, Noemi Manzoni, Enrico Merlin, Davide Miele, Sandro Vero.

Istruzioni per l’invio del materiale sonoro e promozionale alla redazione supporti sonori e audiovisivi (CD, LP, DVD), i libri e il materiale promozionale in genere vanno inviati a: MCC Via Kennedy 44, 35034 Lozzo Atestino (PD) Non forniamo riscontri sull’arrivo del materiale e su eventuali recensioni o articoli che sarà possibile verificare solo direttamente sulla rivista o sul web magazine.

EDITORIALE: Enrico Merlin Grafica e impaginazione: Roberto Mares

Il nostro CD da scaricare: passo dopo passo, curiosità dopo curiosità

Infatti, il nostro compito vuole essere quello di essere semplicemente una voce, tra le tante, che non consiglia, non ammonisce, non dispensa strizzatine d’occhio o ammiccamenti per aggiungersi al coro di coloro che si ritengono i custodi di ciò che è valido e dev’essere necessariamente salvato e posseduto da ciò che non lo è. La nostra voce, in materia, vuole essere solo una discreta presenza, che di numero in numero presenterà un disco, che può essere scaricato del tutto gratuitamente, come del resto la rivista stessa, con il semplice intento di offrire, per l’appunto, un mattoncino sonoro, che poi verrà valutato e verificato da chi vorrà ascoltarlo, sia in termini di qualità artistica, sia in quelli che riguardano la sua qualità tecnica di riproduzione. Inoltre, come avrete già letto, il titolo dell’articolo o, per meglio dire, di questa “rubrica” (non vogliamo nemmeno definirla “Guida ideale”), avrà il solo obiettivo di introdurre il lettore a quanto andrà ad ascoltare, fornendogli unicamente dei ragguagli storici, delle curiosità, delle informazioni che gli permetteranno, così ci auguriamo, di apprezzare meglio le interpretazioni che gli verranno offerte di volta in volta. Sulla base di ciò, abbiamo quindi pensato che il primo disco da allegare all’altrettanto primo numero della rivista potesse essere un titolo esemplificativo, un mirato assaggio di quanto grandi interpreti del passato, unitamente all’indubbia qualità tecnica delle loro registrazioni, furono in grado di esprimere con le loro letture ed esecuzioni di capolavori assoluti della musica orchestrale e sinfonica. Ecco, allora, che la scelta è caduta sul Vol. 2 Hi-Res Sampler dell’etichetta CBH Music , che presenta in formato liquido ad alta e ad altissima risoluzione titoli del passato che hanno fatto, questo sì, la storia del disco. D’altronde, basta dare un’occhiata agli interpreti che questo disco racchiude per comprendere che appartengono al gotha, all’olimpo della direzione orchestrale, ossia Herbert von Karajan con i Berliner Philharmoniker, Leopold Stokowski con la Houston Symphony Orchestra, Erich Leinsdorf con la Boston Symphony Orchestra, Antal Doráti con la London Symphony Orchestra, Kirill Kondrašin con la Moscow Philharmonic Orchestra, Hermann Scherchen con i Wiener Philharmoniker e Leonard Bernstein con la New York Philharmonic Orchestra, che presentano brani di opere immortali di autori quali Čajkovskij, Vivaldi, Mozart, Mahler, Bartók e Orff. Vediamo, allora, di introdurre i nostri lettori, passo dopo passo, alle otto tracce che compongono questo Sampler di altissima qualità, il quale rappresenta anche

di Andrea Bedetti

Oltre ad offrire ai lettori, in ogni numero della rivista, un disco in formato liquido, è nostra intenzione fornire anche una scheda di presentazione, attraverso la quale poterli introdurre a quanto andranno ad ascoltare. Non una vera e propria “guida all’ascolto”, ma piuttosto degli appunti sparsi grazie ai quali inquadrare meglio i vari brani presenti. Cominciamo con il Vol. 2 Hi-Res Sampler dell’etichetta CBH Music, composto da otto tracce in cui sette eccelsi direttori d’orchestra danno sfoggio della loro arte interpretativa. Un disco che potrebbe avere, come sottotitolo, “Invito alla grande musica sinfonica”. Come dare inizio a una discoteca selezionata, composta da titoli validi sia sotto l’aspetto artistico, sia sotto quello tecnico? Se si riflette bene, soprattutto se si è alle prime armi, se si è dei neofiti, ma anche se si hanno alle spalle un bel po’ di ascolti e se si è un po’ avvezzi alla storia della musica colta, il problema resta, poiché la materia discografica è a dir poco sterminata e se ci si avventura senza avere le idee sufficientemente chiare, si rischia davvero di restare impantanati tra le miriadi di case discografiche, autori, interpreti, generi, senza contare i tanti consigli, suggerimenti, dritte che affollano i siti e i forum sul web, tutti pronti a tirare la giacchetta, scrivendo e strombazzando “Questo disco è imperdibile” o “ Una registrazione che non deve mancare sui nostri scaffali!”, oppure ancora “Ragazzi, questa incisione è da urlo!”. Da parte nostra, ossia di coloro che lavorano e scrivono per questa rivista, che si occupa appunto di musica, sia a livello di produzioni discografiche, sia di quel materiale che può essere necessario per migliorare o dare inizio a un impianto di ascolto, con il chiaro intento, quindi, di soddisfare gli appassionati musicofili e quelli audiofili, con questa rubrica vogliamo semplicemente aggiungere un piccolo mattone alla volta, con un obiettivo ben preciso: cercare di costruire un muro, fatto appunto di tanti mattoncini, che simbolicamente può rappresentare una discoteca che non vorremmo pomposamente definire “ideale” o “consigliata”, quanto soltanto “suggerita”, per il semplice fatto che ognuno è naturalmente padrone di aggiungere o meno i propri mattoni, di seguire i propri gusti e le proprie preferenze.

un’opportunità per conoscere un’etichetta come la CBH, visto che questi brani provengono da altrettanti titoli che si possono acquistare direttamente dal sito web della label (https://www.cbh-music.com/). Cominciamo, seguendo l’ordine progressivo della tracklist, dalla prima traccia, che presenta il Finale dal fantasmagorico Concerto per orchestra di Béla Bartók, con la direzione di Antal Doráti alla testa della London Symphony Orchestra, in una registrazione avvenuta a Londra nel 1964 a cura della casa discografica Mercury e proveniente da un disc-to-reel (numero di catalogo della CBH 190 nel formato WAV 192/24).

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Sapete che cosa contraddistingue i grandi direttori di origine ungherese, come nel caso di Doráti, ma potremmo includere anche Fritz Reiner, Ferenc Fricsay, István Kertész, Eugene Ormandy, Georg Solti, George Szell, Sándor Végh, tanto per citare i più famosi? La loro indubbia e straordinaria capacità di saper rendere orchestralmente il senso ritmico di una composizione, ossia il suo pulsare, come se la musica che stavano dirigendo fosse un muscolo cardiaco da saper mantenere al corretto battito vitale. Prova ne è proprio la lettura fatta da Antal Doráti, uno dei maggiori interpreti delle opere del grande, grandissimo compatriota Béla Bartók, del Concerto per orchestra , composto tra il 15 agosto e l’8 ottobre 1943 ed eseguito in prima assoluta a Boston il 1º dicembre dell’anno successivo da Sergej Kusevickij con la Boston Symphony Orchestra. In questa registrazione, abbiamo un perfetto esempio di come il Finale di questo Concerto per orchestra debba essere interpretato. Il Presto finale, introdotto da poche battute in tempo pesante con una specie di motto da parte dei corni, rappresenta un vertiginoso intreccio di danze popolaresche che si alternano brillantemente nel corso del movimento. Si noti, come subito dopo il declamatorio incipit dei corni, si scatena l’elettrizzante moto perpetuo di violini e viole, il cui andamento ritmico, per ottenere un risultato così coinvolgente e convincente, dev’essere disciplinato perfettamente; e lo stesso avviene nel proseguo del Finale, in cui le varie sezioni orchestrali dipanano la loro linea melodica, che dev’essere sempre sostenuta, pungolata, stabilizzata da un andamento agogico che non dev’essere mai falsato di una sola nota, con il rischio di compromettere tutto l’edificio sonoro, anche perché qui ci troviamo di fronte a un organico orchestrale dai numeri importanti, visto che prevede ben quattro strumenti per ogni categoria di legni, quattro corni, tre trombe,

troppo veloce), con il tipico schema tripartito di uno Scherzo, in cui il senso ritmico e le innumerevoli sfumature musicali mutano continuamente, a cominciare dalla musica da taverna, espressa nel Trio centrale del movimento, con le sue carezze timbriche che fissano un malinconico valzer carico di ricordi d’infanzia. Certo, quella musica da valzer maldestra, come quella che veniva eseguita nelle locande boeme frequentate dal Mahler bambino, non sono restituite dal direttore russo con quella dolcezza carica anche di sottile ironia (quanto è difficile renderla con la musica di questo compositore!), ma la sua esecuzione, sostenuta dalla validità della compagine moscovita, permette di cogliere quelle linee essenziali, quel passaggio tra un presente oppressivo, dato

dall’incedere ora conclamato, ora sfuggente, espresso dagli ottoni, e quel passato ormai irraggiungibile nel quale trovare conforto e rifugio. E poi, Mozart con il suo Requiem , che qui viene eseguito in quella che considero una delle migliori versioni in disco mai registrate, grazie a quella meravigliosa bacchetta che fu il berlinese Hermann Scherchen, la cui missione interpretativa non fu relegata solo a beneficio delle opere di Bach e del repertorio del Novecento storico, a cominciare dall’amato e venerato Arnold Schönberg, ma capace di spaziare in largo e in lungo, coinvolgendo anche altri musicisti, proprio come Mozart. Questa registrazione fu fissata dai tecnici della Westminster tra il 13 e il 15 giugno 1958, con la presenza del soprano Sena Jurinac, del contralto Lucretia West,

tre tromboni, basso tuba, due arpe, una sezione di percussioni decisamente nutrita (timpani, tamburo militare, grancassa, tam- tam, piatti, triangolo), oltre a un massiccio schieramento di archi. Il secondo brano proviene dal catalogo della russa Melodiya, la quale a livello tecnico ha alternato delle ottime prese del suono ad altre terribilmente sciatte e indecorose. Con questa registrazione della Sinfonia n. 1 di Gustav Mahler, diretta da Kirill Kondrašin con la Moscow Philharmonic Orchestra nel 1969 e proveniente da un nastro a bobina da sette pollici (numero di catalogo CBH 191 nel formato DSD 128), la resa tecnica

del tenore Hans Loeffler e del basso Frederick Guthrie, dei Wiener Philharmoniker e del Wiener Singverein e il Sampler presenta lo straordinario Confutatis (numero di catalogo CBH 193 nel formato DSD 64). A differenza di quanto fecero i tecnici della Melodiya, quelli della Westminster ricostruirono la compagine orchestrale e quella corale a una grande profondità, con il chiaro intento di simboleggiare un qualcosa che proveniva e che aveva a che fare con l’al di là. Ecco, allora, le voci maschili, rese con un magistrale effetto tellurico da parte di Scherchen, che si alternano in questo brano con quelle femminili, che al contrario sono dolcemente eteree, restituendo così una sorta di effetto manicheo, un confronto allegorico tra ciò che resta fisico , in balia del male, distinto da ciò che è invece ancora puro, metafisico , ossia regno del bene. E, infine, ottenendo un incantevole, magico risultato, quando alla fine del Confutatis , le voci maschili si uniscono a quelle femminili, dando vita a un mix, a una compenetrazione tra ciò che è qui e di ciò che è oltre, il tutto con un apporto strumentale dato dai Wiener Philharmoniker, in cui la sezione degli archi, soprattutto quelli gravi, scandisce inesorabilmente un incedere impietoso, martellante, quando intervengono le voci maschili, così come al contrario risulta soffice, come una nuvola sonora, nel momento in cui si dispiegano le voci femminili. Certo, l’immagine di Leonard Bernstein che affronta e registra la partitura delle Quattro Stagioni di Vivaldi con gli archi della New York Philharmonic Orchestra farà inorridire i puristi delle esecuzioni filologiche, ma in questa incisione che risale al 1965, anche

è complessivamente buona, anche se, come avveniva spesso con la casa discografica sovietica, la ricostruzione del palcoscenico sonoro è oltremodo ravvicinata (all’inizio del secondo tempo, qui presentato, il triangolo è praticamente a mezzo metro sulla destra dall’ascoltatore), e la gamma grave è decisamente generosa. Sia ben chiaro, come direttore Kondrašin non è da annoverare tra i sacerdoti del tempio consacrato a Mahler, ma in questa lettura dimostra di saper mantenere il sangue freddo attraverso un suono granitico, scolpito nel marmo michelangelesco. Ci troviamo di fronte a un tempo Kräftig bewegt, dock nicht zu schnell (ossia Vigorosamente mosso, ma non

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se la presa del suono avvenne nel 1963-64 ad opera di Fred Flaut della CBS (numero di catalogo CBH 200 nel formato WAV 96/24), con John Corigliano violino solista, Lenny dimostra, come sempre, di saperci fare. È sufficiente ascoltare il tempo Presto che conclude il concerto dell’Estate per rendersi conto di come il direttore, compositore e pianista statunitense, sebbene in chiave del tutto “afilologica” riesca a far tirare fuori dagli archi della sua compagine quella corretta tensione emotiva attraverso un timbro decisamente aggressivo, pungente, ritmicamente impeccabile. Semmai, a non essere propriamente a proprio agio nei panni

caratteristica che ha afflitto le prese di suono dell’etichetta gialla a partire dalla seconda metà degli anni Sessanta) che va a velare la gamma dei registri (il registro grave degli archi tende persino a rimbombare, mentre quello acuto mostra a volte punte di saturazione) e a impedire la dovuta messa a fuoco degli strumenti, ma se volete avere

una dimostrazione di come veniva eseguita la musica barocca prima dell’avvento della filologia interpretativa, questo disco può essere un’ottima soluzione. Dal cuore del barocco veniamo poi catapultati in quello del Novecento storico, con una delle sue pagine più celebri, i Carmina Burana di Carl Orff, che fu naturalmente affrontata da quel volpone, votato alle interpretazioni pirotecniche, quale fu Leopold Stokowski. Il direttore inglese registrò il capolavoro del compositore tedesco nel 1959 per l’etichetta Capitol (numero di catalogo CBH 202 nel formato DSD 128) e nel Sampler in questione troviamo il brano iniziale e che è anche il più celebre (non per nulla, sia il mondo cinematografico, sia quello pubblicitario lo hanno saccheggiato a più non posso… ), vale a dire Fortuna

di violino solista è John Corigliano, il quale per ventitré anni fu il Konzertmeister , ossia primo violino, della compagine newyorkese, in quanto si avverte come affronti con una velata titubanza i suoi interventi, così come i suoi attacchi non siano un modello di virtù stilistica, senza tener conto che il suono del suo violino non sia propriamente brillante, terso e, soprattutto, pulito. Continuiamo con Vivaldi e con un altro direttore che non ha mai avuto un ottimo rapporto con la montante marea delle cosiddette interpretazioni storicamente informate, ossia Herbert von Karajan. Nel 1969, il grande interprete salisburghese confezionò per la Deutsche Grammophon un disco intitolato Baroque Festival (numero di

Imperatrix Mundi . Un brano di grande impatto timbrico, che Stokowski, grazie all’ottima Houston Symphony Orchestra e, soprattutto, alla Houston Chorale, porta su un piano che è più simile all’effetto dato dal coro di una tragedia greca, con le voci che assumono le sembianze di un implacabile incedere come quello che è rappresentato dal fato. E poi, l’esplosione orchestrale (la presa del suono effettuata da Peter Berkowitz, alquanto ravvicinata, corrobora ulteriormente la lettura “effettistica” di Stokowski), dato dal colpo di piatti che dà fine alla funambolica galoppata timbrica scandita dai timpani. Per chi ama le registrazioni in “Cinemascope” sonoro!

catalogo CBH 201 nel formato WAV 192/24) presentando con i fedeli componenti della Berliner Philharmoniker pagine di Albinoni, Vivaldi, Pachelbel, Boccherini, Corelli e Bach. Del Prete rosso Karajan volle eseguire il Concerto in la minore RV 523 per due violini, archi e basso continuo, una scelta felice, in quanto questa pagina concertistica, pur non essendo tra le più celebri del compositore veneziano, è sicuramente tra le più riuscite ed efficaci, soprattutto grazie all’emozionante Largo centrale, durante il quale i due violini solisti dialogano esclusivamente con il basso continuo. A più di mezzo secolo di distanza, è ovvio che una lettura come quella proposta da Karajan non

Dal Mahler di Kondrašin passiamo a quello di un altro direttore “comprimario”, Erich Leinsdorf (sia ben chiaro, se definisco comprimario questo interprete austriaco naturalizzato americano, non è per il fatto che le sue letture siano state di modesta entità, ma semplicemente perché, sfortunatamente per lui, si trovò a operare in un’epoca nella quale i grandi e i grandissimi abbondarono a dismisura, senza contare che gli esiti migliori con la bacchetta li ottenne soprattutto in campo lirico… ). Eppure, la sua lettura della Sinfonia n. 5 di Mahler, effettuata nel 1963 alla testa della splendida Boston Symphony Orchestra per la RCA (numero di catalogo CBH 211 nel formato WAV 44.1/16), è degna di nota, in quanto questo

possa essere più considerata attendibile, ma è indubbio che la nobiltà, la solennità con le quali il leggendario direttore riesce a impregnare i tre tempi del Concerto riescono ancora ad affascinare. A livello di presa del suono, effettuata come spesso avvenne in quegli anni da Günter Hermanns, purtroppo ci troviamo alla fine della golden age delle registrazioni analogiche, con la presenza di quell’annosa “patina” (una perniciosa

capolavoro causa dei solenni grattacapi a chi la deve dirigere, poiché rappresenta un periglioso giro sulle montagne russe, nel senso che si passa da momenti di tale veemenza timbrica, che si riscontrano raramente in tutto il repertorio sinfonico, ad altri di paradisiaca e struggente tenerezza, mettendo continuamente sotto pressione

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sia la direzione, sia l’orchestra. Fortunatamente, nel Sampler della CBH non è stato inserito l’annoso e stucchevole (se non eseguito con la dovuta accortezza) Adagietto , bensì il secondo tempo, lo Stürmisch bewegt. Mit grösster Vehemenz (ossia, Tempestoso ed animato. Con la più grande veemenza), il cui incipit è interpretativamente assai impegnativo, visto che presenta un breve ostinato dei bassi seguito da un motivo agitato di scale ascendenti e discendenti, la cui enunciazione deve trasmettere un senso di ansia e di rappresa impotenza. Inoltre, dopo la presentazione dei due temi, il primo reso con i violini primi e il secondo che non è altro che la citazione quasi letterale del secondo episodio della Marcia funebre iniziale, che rappresenta il primo tempo della sinfonia, si raggiunge il cuore del movimento, con un passaggio in cui la dimensione angosciante e una spasmodica febbre raggiungono livelli timbricamente esplosivi. Ebbene, Leinsdorf, con la preziosa complicità della compagine bostoniana (che all’epoca rientrava tra le cinque migliori orchestre al mondo), riesce a disciplinare e a convogliare un Klang sempre convincente, sorretto da un’intensa scarica emotiva (la febbre trasmessa dagli archi acuti è notevole per fattura e per pulizia), il che gli permette di giostrare adeguatamente nel pulsare agogico del movimento, restituendo un suono che è simbolo stesso di un’imbarcazione sballottata dalla forza e dalla violenza di un oceano in tempesta. Assai buona la presa del suono fatta da Lewis Layton, che mette in mostra una dinamica nucleare, oltre ad essere velocissima (il decadimento armonico degli ottoni, così sollecitati, è pressoché perfetto), una qualità tecnica che permette di apprezzare ulteriormente la prova esecutiva.

volle utilizzare i colpi di cannone, evitando così di cadere nella possibile trappola che ogni direttore deve scansare allorquando dirige questa pagina, ossia non cedere alla retorica, visto che ci troviamo di fronte a una composizione di chiara matrice patriottica. Semmai, Lenny , e lo si può notare facilmente durante l’ascolto, si pone l’obiettivo di non calcare la mano sugli sbalzi timbrici, aumentando di conseguenza la dose “effettistica” del brano, ma evidenziando maggiormente la capacità descrittiva che Čajkovskij riesce magnificamente a rendere attraverso l’uso sapiente delle sezioni orchestrali, impastando e dividendo, aggiungendo e raschiando, dando una fuggevole pennellata a mo’ di schizzo, così come soffermandosi su alcuni particolari (si prenda a titolo di esempio, come il musicista, dopo la prima, trionfante declamazione dell’inno francese, riesce a smorzare la tensione emotiva attraverso un mirato passaggio dato dai violoncelli e dai contrabbassi, che addolciscono miracolosamente l’elettrificata atmosfera… ).

La tracklist si conclude con il ritorno di Lenny Bernstein, che esegue, sempre con i componenti della New York Philharmonic Orchestra, una delle pagine orchestrali più adatte per capire perché Pëtr Il’ič Čajkovskij sia considerato (giustamente) uno dei più grandi orchestratori della storia della musica. Il brano è il famosissimo 1812 Ouverture Solennelle in mi bemolle maggiore, op. 49, pezzo amatissimo anche dagli audiofili, che amano vedere schiantarsi le pareti della loro sala d’ascolto quando entrano in azione i colpi di cannone con i quali si conclude il

Per scaricare gratuitamente l’album contenente il [CBH-MUSIC DSD & HI-RES AUDIO SAMPLER VOL.2] vai sul sito di CBH-MUSIC (cbh-music.com) e dopo esserti registrato, vai al SAMPLER che trovi nella home page, aggiungilo al carrello, procedi con check out e aggiungi nel campo “Codice sconto” il tuo codice personale: X1YKC2PR4S25

brano… In effetti, ben pochi compositori hanno saputo restituire con altrettanta efficacia la descrizione di una battaglia, esaltando l’apporto delle varie sezioni orchestrali, in una continua esplosione (è proprio il caso di dirlo) di colori timbrici che investono la macchina strumentale è che raggiungono il culmine alla fine della pagina, quando nell’echeggiare delle note della Marsigliese francese, l’orchestra si lascia andare a un festoso dispiegamento sonoro, scandito dalla gioiosa presenza delle campane tubolari. Ora, in questa registrazione, fatta dai tecnici della CBS nel 1962, nella quale furono incluse altre celeberrime pagine del musicista russo quali il Capriccio italiano , la Marcia slava e l’ouverture-fantasia Romeo e Giulietta (numero di catalogo CBH 226 nel formato WAV 44.1/16), e mi dispiace deludere i suddetti audiofili, Bernstein non

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Disco in copertina: Miles Davis Quintet Complete Café Bohemia Bandstand

Quindi, accendete il vostro giradischi e immergetevi nell’atmosfera della seconda metà degli anni ’50 con la musica inedita del Miles Davis Quintet.

di Enrico Merlin

Miles Davis (tp); John Coltrane (ts); Red Garland (p); Paul Chambers (b); Philly Joe Jones (d) Guy Wallace (Radio Broadcast announcer) Track List: > Side A 1. Announcement by Guy Wallace 2:01 2. Well You Needn’t 5:48 3. It Never Entered My Mind 5:02 4. A Gal in Calico 4:43 5. Stablemates 3:48 > Side B 1. How Am I to Know? 3:03

U.S.A. 1956-58 Radio Broadcast Volume 1 .

Il primo dei tre volumi dedicati alle registrazioni effettuate da Miles Davis, tra il 1956 e il 1958 al Café Bohemia, situato al 15 di Barrow Street, nel Greenwich Village, a New York. Il ristorante (che recava un evidente errore di ortografia nell’insegna – Restraurnt) era gestito dall’italo-americano Jimmy Garofalo e fu inaugurato nel 1955. In breve tempo il Café Bohemia divenne una sorta di Mecca per i modernisti del jazz, e diversi album furono registrati da alcuni degli artisti più interessanti del tempo (Art Blakey, Charles Mingus, Kenny Dorham, George Wallington). Inoltre, Oscar Pettiford, (che nei primi tempi ricopriva l’incarico di direttore artistico del Jazz Club) vi dedicò anche una composizione, intitolandola «Bohemia After Dark». Il Café Bohemia era inoltre una delle sedi da cui si trasmetteva il programma Bandstand U.S.A. sulle onde del Mutual Network Radio Broadcasts. Ogni settimana il presentatore Guy Wallace, spesso accompagnato da ospiti, registrava e trasmetteva alcuni incredibili live direttamente dal Bohemia. Miles Davis fece parte di queste trasmissioni per ben otto volte, tra il 15 settembre 1956 e il 17 maggio 1958. Qui troverete, per la prima volta nella storia, l’integrale delle registrazioni di Miles (circa 120 minuti), a suo tempo trasmesse dal Mutual Network. Parte di questo materiale è stato pubblicato nel corso degli anni su dischi non ufficiali, ma la maggior parte compare per la prima volta su vinile se non addirittura è di fatto completamente inedito. In tutti i casi, il materiale viene qui pubblicato con la migliore qualità sonora possibile e con velocità corretta (la maggior parte delle versioni precedenti giravano alla velocità sbagliata, ovvero stonate rispetto alla tonalità originale d’esecuzione). Si tratta di una vera macchina che viaggia nel tempo e nello spazio, in quanto abbiamo cercato di riprodurre il suono di quell’epoca nel modo più fedele possibile. Per migliorare e rispettare filologicamente quel mondo del suono, abbiamo deciso di pubblicare anche tutti gli annunci (di Guy Wallace e dei suoi ospiti) nella loro versione completa. Alcuni aspetti molto interessanti e imprevisti emergono da questi annunci, che aiuteranno l’ascoltatore a vivere al meglio quell’epoca, sia da un punto di vista sociale sia storico.

2. The Theme 1:34 3. Woody’n You 3:58 4. Walkin’ [Gravy] 7:10 5. All of You 2:25

Miles Davis Quintet Complete Café Bohemia Bandstand U.S.A. 1956-58 Radio Broadcast Volume 1

Disponibile qui: Reference Music Store www.referencemusicstore.it GRooVE back store www.grooveback.zone

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Si può fare d’altronde grande arte senza CREDERE che in un certo senso quell’arte cambierà il mondo? Maurizio Pollini di Luca Ciammarughi

emanava nei suoi concerti erano tali da instillare nelle giovani generazioni il desiderio di mettersi alla tastiera e studiare, la voglia di sorpassarsi. Sorpassare sé stesso, più che gli altri, dovrebbe essere l’obiettivo di un artista – e questo Pollini lo comunicava in pieno, andando ben al di là della vittoria a Varsavia. Non tutti però, forse, reagirono di fronte al Signore della tastiera nello stesso modo. Sappiamo bene che Pollini impose un canone di perfezione (emblematica l’incisione degli Studi di Chopin) quasi annichilente. Paolo Bordoni mi raccontava di aver assistito una volta a un’integrale dell’op. 10 e op. 25 in cui aveva seduto a fianco Dino Ciani: “a ogni Studio, Dino scivolava sempre più in basso nella poltrona, quasi annientato da quell’assoluto dominio”. Ciani e Pollini erano amici, e condividevano diversi aspetti, come l’amore per l’opera, la curiosità musicale e culturale insaziabile, la brillantezza intellettuale e un certo slancio che quella generazione cresciuta nel Dopoguerra poteva ancora avere. Conosciamo la triste sorte di Ciani, che suona quasi come la predestinazione di un uomo che amava il brivido e il rischio, e conosciamo anche

le loro differenze come pianisti. Il canone polliniano non poteva che imporsi – e con mille ragioni – ma finì anche per creare, accanto allo slancio motivazionale evocato con emozione da Guy, una serie di nevrosi nei contemporanei e nella generazione successiva. C’è innanzitutto il fatto che l’imitazione del modello è sempre un rischio. Quando Michelangeli pubblicò il disco delle Ballate di Brahms, all’epoca in Italia poco suonate, molti si misero a suonarle, infatuati di quell’interpretazione. Ma Michelangeli era Michelangeli (così come – per citare un altro e diverso modello generazionale – Gould era Gould). E Pollini era Pollini.

Gli articoli usciti su Maurizio Pollini, ma ancor più la quantità di omaggi e pensieri pubblicati da appassionati, musicisti e operatori culturali di vario tipo sui social network sono la cartina di tornasole della grandezza di una figura che solo un approccio fazioso potrebbe mettere in discussione nel suo complesso. Pollini compendiava in sé ciò che molti vorrebbero avere: la sintesi di un istinto pianistico naturale (nel senso anche più strettamente corporeo: basta osservare la bellezza della sua mano, che sembra fatta per suonare il pianoforte) e di uno spessore culturale che gli permise di non sedersi sugli allori di quella facilità e di quel talento innato. Si tratta di un mix, quello fra natura e cultura, fra istinto e riflessione, fra potere della corporeità e consapevolezza che nell’arte c’è qualcosa che trascende la corporeità, che pone Pollini fra i colossi del pianismo di sempre. Questa statura straordinaria di Pollini ha portato negli anni anche, un po’ come avviene nelle guerre di religione, ad agiografie o a demolizioni. È quello che è spesso avvenuto con artisti di altissimo livello, come la Callas o Michelangeli – peraltro molto diversi da Pollini. Fra i contenuti più emblematici di questi giorni, ho letto un lungo post del pianista francese François-Frédéric Guy, intitolato “On voulait être Pollini” (Volevamo essere Pollini), “non per pretensione o per follia, ma per necessità”. Guy spiega che la forza, l’energia vitale prometeica, il sentimento volontarista che il pianista milanese

C’è poi un altro aspetto, ben evidenziato in un bellissimo post di Alexander Lonquich (e poi dicono che i social non servono a niente!): Pollini era l’incarnazione di un approccio “strutturalista” che si impose in quegli anni, granitico, ferreo nel controllo dell’andamento del tempo, tendente a dipanare i dubbi e le ambiguità per risolversi nella “massima serietà, chiarezza e limpidezza”. Questa chiarezza era per Pollini anche una volontà di comunicare al pubblico nel modo più limpido possibile il messaggio del testo. Ma dire che quello di Pollini fosse l’unico modo possibile di avvicinarsi alla Verità del Sacro Testo sarebbe sbagliato: Pollini era Pollini anche perché interprete del proprio tempo, non strettamente come filologo (e infatti agli strumenti storici non

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si è mai avvicinato come esecutore). Ma attenzione, come chiarisce Lonquich: questo “strutturalismo” lasciava spazio, soprattutto nelle serate di grazia, a interpretazioni poeticissime e a momenti di assoluta tenerezza – perché con Pollini l’adesione a quel canone entrava in dialogo con una sensibilità altissima. Una dialettica interna potentissima. Sarebbe ipocrita nascondere che Pollini abbia avuto dei detrattori, che contestarono per esempio la qualità del suo suono o certe sue rigidezze. Ma questo fa parte del bello del dibattito su un artista. Nemmeno Beethoven è sfuggito a demolizioni, figuriamoci gli altri! L’agiografia monoteista è dannosa quanto l’iconoclastia. Emersero in quegli anni altri interpreti: per esempio, il pianismo più allusivo e nostalgico-sensuale di Radu Lupu, che persino in disco sfaldava l’unità di tempo e ammorbidiva i fraseggi. Si iniziò a riflettere su altri modi di suonare e sull’esplorazione di repertori che non facevano parte del canone maggiore, per esempio quello francese da parte di Aldo Ciccolini, figura grandissima ma in quegli anni troppo relegata sullo sfondo (alla Scala, negli ultimi anni, avremmo potuto – dovuto! – ascoltare anche lui, e invece così non fu). È proprio per questo che, secondo me, la statura di Pollini va osservata al di là del perfezionismo volontaristico. La frase che molti hanno citato in questi giorni è indicativa: «Come possiamo sapere se abbiamo compreso il senso di una musica? Dall’emozione che ci procura. È un criterio soggettivo, eppure è l’unico che funziona veramente». Ebbene sì, è una frase di Maurizio Pollini. Ed è in nome di quella emozione che io ho continuato ad ascoltarlo, fino al 2022 (all’ultimo concerto scaligero, quando ormai la débacle fisica era definitiva, nel 2023, non c’ero), e ho sentito che nelle sue interpretazioni c’erano ancora ben più che i barlumi di quell’incandescenza e quella profondità di spirito che lo contraddistinguono (fra gli ultimi ricordi più vividi, lo Schönberg dell’op. 19, la Berceuse di Chopin, ma anche l’Appassionata e momenti dell’amatissima 106). Chi, come me, continuava ad ammirarlo e a sentire che la forza espressiva era intatta (anzi, talvolta quasi più umana nel momento dello sgretolamento di quel meccanismo spaventosamente efficiente), è stato accusato di essere falso e sicofante. Costoro non si sono accorti che a essere diverso non era il giudizio, ma il punto di vista. Con la morte del grande Pollini probabilmente si chiude un’epoca. Ma per fortuna nessuno parlerà di “ultimo dei romantici” o boiate simili. Pollini non era un artista per “lodatori del buon tempo antico” – questo certamente no. Egli lesse il romanticismo come movimento radicale ed esplosivo, ben lungi da qualsiasi melenso e stucchevole conservatorismo. Certo, la sua fu una delle possibili letture, non la sola – e per fortuna. Riguardo alla letteratura del XX secolo, come altri protagonisti della sua epoca, fu portavoce di alcuni “dogmi ideologici” che tagliarono fuori un Novecento “altro” rispetto a quello di Darmstadt e delle avanguardie. Ma, pur con tutti i limiti di quell’impostazione, è importante ricordare che le armi con cui si combattevano quelle battaglie (col senno di poi talvolta parziali o addirittura ingiuste) erano le armi della cultura, non di un marketing becero. Si può fare d’altronde grande arte senza CREDERE che in un certo senso quell’arte cambierà il mondo?

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The Velvet Underground & Nico. 1967

una moltitudine di altri esseri umani che formano un’entità chiamata polis, la “città” dei greci. Questa visione di Platone è ben diversa dall’uomo animale politico di Aristotele, è una visione mistica atta a creare una simbiosi fra il singolo e la sua polis. Quando io sostengo che The Velvet Underground & Nico è la forza della musica che crea una simbiosi fra l’anima del singolo e l’anima dei bassifondi di New York mi riferisco a questa concezione platonica: questo disco assurge al rango di “simbolo” nel senso etimologico del termine, ovvero dal greco “sun-ballein”, che significa “unire con”, creare una simbiosi che unisce l’anima di un artista con l’anima della suburbia newyorkese. È da cosa è rappresentato questo “sun-ballein”, questo simbolo? Dalla pop art che ha generato il daimon della musica dei The Velvet Underground & Nico, che è pura follia rituale nel senso platonico del termine. La musica perde la sua funzione di tramite per accedere a un qualcosa di più elevato: diventa la creatività che mette in comunicazione l’anima con un’entità composta di altre esistenze e che si chiama polis.

di Marco Fanciulli

Una recensione diversa dal mio solito modello perché questo è un disco che non è assimilabile a nessun altro prodotto musicale e ci vuole una recensione che sia originale quanto il disco stesso, se non altro per rispetto verso chi in quel lontano 1967 ha osato l’inosabile.

Una recensione diversa dal mio solito modello perché questo è un disco che non è assimilabile a nessun altro prodotto musicale e ci vuole una recensione che sia originale quanto il disco stesso, se non altro per rispetto verso chi in quel lontano 1967 ha osato l’inosabile. Di un disco così epocale e influente è stato detto di tutto e di più. Pertanto in questa sede non intendo fare una disamina di un album sul quale esiste già un’abbondante letteratura. Quindi ho deciso di dare un taglio filosofico, allegorico e immaginifico, all’approccio di un disco che è sinonimo di avanguardia musicale e non solo, anche contenutistica e sociale.

Il simbolo è la banana di Andy Warhol, il metro della pop art per trasformare in arte il degrado metropolitano e il suo perverso mondo di perdizione. La musica è il “daimon”, quell’atto creativo che è insito nell’animo umano e che in questo caso lo mette in relazione con le forze sociali devianti dalla norma: tossici, sbandati, drag queens, travestiti, umanità di risulta, esclusi dal ciclo produttivo lavora- produci-consuma... il consumismo bersaglio dell’ironia provocatoria della Pop Art e della banana di Andy Warhol in copertina. Il termine “daimon” è inteso come “atto creativo”

È necessario tracciare una traiettoria che parte da Platone e passa da Schopenhauer fino a concludersi con Nietzsche per dare un taglio ermeneutico filosofico a questo disco. Platone nella sua Repubblica descrive la sua concezione elevata della musica e ne definisce il ruolo: la musica è, assieme all’attività fisica, la miglior educazione dell’anima, quella che mette in relazione quest’ultima con il cosmo e permette di conseguenza di mostrare all’essere umano ciò che c’è oltre le ombre della caverna, che, secondo il celebre Mito della Caverna, sarebbero solo le copie imperfette delle idee perfette. La musica permette all’uomo di liberarsi dalle catene cui era imprigionato nella caverna. Ma Platone si spinge ancora oltre: considera la musica come una sorta di follia rituale atta a creare questo collegamento fra anima e cosmo. L’uomo non è fatto solo di carne, sangue e ossa ma possiede anche un’anima: tale anima è il motore che mette in relazione l’essere umano con l’armonia celeste del creato (secondo la concezione pitagorica), quindi con il divino (che ormai non era più rappresentato dagli dèi di Omero, bensì dal misticismo divino che esiste sopra l’uomo); ma l’anima umana è anche in contatto con l’universo terreno, costituita da

The Velvet Undergound.

e non ha nulla a che vedere con il significato moderno e negativo di demone. The Velvet Underground & Nico è un atto demiurgico, un’emanazione di un daimon creativo, e sarà a sua volta demiurgico di interi movimenti controculturali a venire (senza questo disco non avremmo avuto nulla, ripeto nulla). Ed è il daimon insito nell’anima di un manipolo di individui calati nella dimensione decadente di un’entità polis-New York; è la voce di un daimon che non si estranea dalla realtà-polis - come i coevi movimenti flower power californiani - ma la penetra fino in fondo nei suoi meandri reconditi, oscuri e perversi, creando una sublimazione di quello che l’artifiziosità ipocrita del perbenismo borghese vuole nascondere: tutto quello che deroga dalla norma di un dogma comportamentale e sociale codificato. Il cosiddetto perbenismo non si limita solo a demonizzare, ma prima di tutto nasconde ed eclissa quella parte della società che deve rimanere nascosta e non turbare le sue (fallaci) sicurezze. The Velvet Underground & Nico è un viaggio nelle viscere, nei buchi neri di una New York lontana dalle sicumera scintillanti di facciata, è un’esplorazione al centro della voragine di perdizione della Big Apple con lo spirito di un Jules Verne impersonato in

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Nico è anche I’ll Be Your Mirror, ovvero sarò il tuo specchio: un momento di delicatezza definito da trame armoniche morbide e delicate e da un canto che è quello di una sirena. Sarò il tuo specchio, riflettere quello che sei, la tua bellezza, è il tema di un carme amoroso che Reed dedica a Nico, e lo specchio parla, diventa una voce interiore. È il tema del doppio affrontato più volte in letteratura, la dualità insita in ogni essere umano qui identificato in uno specchio che prende la parola e rassicura sulla bellezza della persona facendo parlare la sua immagine riflessa, e tale bellezza raggiunge un alto valore valoriale, come in Dorian Gray. Quindi la melodia dark di All Tomorrow’s Parties, ove una Nico in veste di sacerdotessa notturna ci accompagna nel buio di vicoli maleodoranti verso culti misterici pagani, in un mondo dove bellezza e orrore si sublimano come ultima espressione di un soprasensibile. La voce morbida e sensuale di Nico è quella di una sacerdotessa che pontifica da un oracolo all’incrocio di un Avenue newyorkese. Quale miglior brano di questo capace di anticipare il concetto di dark; una melodia funerea con un canto che pare quello di una persona che non appartiene a questo mondo e l’imbastito sinfonico delle parti strumentali è uguale al canto delle prediche che accompagna un corteo di astanti vestito di nero verso un cerimoniale nella scura notte metropolitana. La musica è anche follia. E qui si chiude il circolo ermeneutico in chiave filosofica di questo disco con Nietzsche. Secondo Nietzsche l’animo umano vive fra l’apollineo e il dionisiaco, ovvero fra una parte equilibrata e razionale e una irrazionale votata alla follia, che diventa una porta verso il divino. L’apollineo - dal dio del sole Apollo, Mitra per i persiani - è l’aspetto votato all’ordine e all’armonia, mentre il dionisisco - da Dioniso, ovvero Bacco il dio del vino - è l’ebbrezza dell’irrazionale. The Velvet Underground & Nico è più di un disco sperimentale che fonde psichedelia, avanguardia, rumorismo e rock: così viene descritto sommariamente, ma è oltre tutto questo. È la traiettoria musicale secondo le coordinate filosofiche Platone-Schopenhauer- Nietzsche: un atto del daimon creativo che porta la decadenza urbana alla sua sublimazione in arte, con l’impiego di un elemento dionisiaco liberato dalle catene. Però dietro alle rovine, dietro alle scorie putrescenti di una società ai margini che il perbenismo borghese vuole tenere nascosta c’è il senso del sublime, dell’arte che si fa portavoce di un decadentismo sonoro la cui missione è la redenzione dell’essere umano. L’arte che estrapola la bellezza dalla perversione, quella bellezza salvifica secondo il principio del grande Dostoevskij.

un Virgilio dantesco che guida nei meandri di sesso e droga, per sbattere in faccia il duro volto della realtà a chi veste l’abito dell’ipocrisia. Il disco è l’atto creativo di un agente prometeico che porta il suo creatore alla catarsi. Non è forse il brano Heroin un colloquio del daimon di Lou Reed? Il vortice di chi piomba nella spirale dell’eroina è l’espressione daimonica di una catarsi spiraliforme, sorretta dalle dissonanze della viola di John Cale, come uno stato di trance generato da un antico oracolo di Delfi trasportato nei millenni nel cuore oscuri e violento dei bassifondi metropolitani. Qui non è la voce di Lou Reed ma quella del suo daimon interiore, colui che si fa aruspice, mago della creazione musicale, il demiurgo artefice dell’Unione fra l’anima e la polis nei suoi aspetti più decadenti e mostruosi. Da qui a Schopenhauer il passo è breve. Il filosofo tedesco considerava la musica come la più alta manifestazione della Volontà, un’entità che rappresenta l’espressione assoluta del mondo fenomenico.

La musica, atto daimonico per eccellenza nella concezione schopenhaueriana, è la rivelazione di quest’alta manifestazione metafisica denominata Volontà, che non è inintelligibile all’uomo: costui deve intraprendere un percorso interiore per poter accedere a questa Volontà. È sufficiente ascoltare i brani cantati da Nico, questi splendidi cammei di puro lirismo decadente: I’ll Be Your Mirror, Femme Fatale, All Tomorrow’s Parties, per rendersi conto - ma solo a un orecchio iniziato capace di andare oltre l’immanenza - come la musica abbia la forza di rivelare la trascendenza, il sublime dalla decadenza urbana, di far vedere all’ascoltatore che dietro le rovine esiste un assoluto sublime. Sunday Morning è la luce dell’assoluto che dietro la putrescenza di una marcia decadenza urbana rivela il fascino di una melodia che è una sinapsi capace di legare ambiguità e fine eleganza, con quel canto loureediano modulato in una effeminata grazia, quasi a voler far germinare dal marciume il fiore misterioso ed enigmatico del travestitismo. Bastano pochi tocchi di carillon per aprire la soglia di questo mistero.

Continua la lettura on-line.

Nico.

Poi è Nico che ci introduce a un nuovo mistero: quello della Femme Fatale, ben iconizzato nell’omonimo brano. Una ballad dai toni malinconici che avvolge con un’infida tenerezza. L’ossimorico assunto di truce tenerezza che svela l’angelo demoniaco, la femme fatale capace di trascinare nella sua perversa spirale erotica. Il canto di una sirena diabolica che ammalia con la sua voce, aggraziata da leggiadri coretti e da delicati arrangiamenti per mostrare ai comuni mortali quanto possa essere leggiadra la perversione.

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