Si può fare d’altronde grande arte senza CREDERE che in un certo senso quell’arte cambierà il mondo? Maurizio Pollini di Luca Ciammarughi
emanava nei suoi concerti erano tali da instillare nelle giovani generazioni il desiderio di mettersi alla tastiera e studiare, la voglia di sorpassarsi. Sorpassare sé stesso, più che gli altri, dovrebbe essere l’obiettivo di un artista – e questo Pollini lo comunicava in pieno, andando ben al di là della vittoria a Varsavia. Non tutti però, forse, reagirono di fronte al Signore della tastiera nello stesso modo. Sappiamo bene che Pollini impose un canone di perfezione (emblematica l’incisione degli Studi di Chopin) quasi annichilente. Paolo Bordoni mi raccontava di aver assistito una volta a un’integrale dell’op. 10 e op. 25 in cui aveva seduto a fianco Dino Ciani: “a ogni Studio, Dino scivolava sempre più in basso nella poltrona, quasi annientato da quell’assoluto dominio”. Ciani e Pollini erano amici, e condividevano diversi aspetti, come l’amore per l’opera, la curiosità musicale e culturale insaziabile, la brillantezza intellettuale e un certo slancio che quella generazione cresciuta nel Dopoguerra poteva ancora avere. Conosciamo la triste sorte di Ciani, che suona quasi come la predestinazione di un uomo che amava il brivido e il rischio, e conosciamo anche
le loro differenze come pianisti. Il canone polliniano non poteva che imporsi – e con mille ragioni – ma finì anche per creare, accanto allo slancio motivazionale evocato con emozione da Guy, una serie di nevrosi nei contemporanei e nella generazione successiva. C’è innanzitutto il fatto che l’imitazione del modello è sempre un rischio. Quando Michelangeli pubblicò il disco delle Ballate di Brahms, all’epoca in Italia poco suonate, molti si misero a suonarle, infatuati di quell’interpretazione. Ma Michelangeli era Michelangeli (così come – per citare un altro e diverso modello generazionale – Gould era Gould). E Pollini era Pollini.
Gli articoli usciti su Maurizio Pollini, ma ancor più la quantità di omaggi e pensieri pubblicati da appassionati, musicisti e operatori culturali di vario tipo sui social network sono la cartina di tornasole della grandezza di una figura che solo un approccio fazioso potrebbe mettere in discussione nel suo complesso. Pollini compendiava in sé ciò che molti vorrebbero avere: la sintesi di un istinto pianistico naturale (nel senso anche più strettamente corporeo: basta osservare la bellezza della sua mano, che sembra fatta per suonare il pianoforte) e di uno spessore culturale che gli permise di non sedersi sugli allori di quella facilità e di quel talento innato. Si tratta di un mix, quello fra natura e cultura, fra istinto e riflessione, fra potere della corporeità e consapevolezza che nell’arte c’è qualcosa che trascende la corporeità, che pone Pollini fra i colossi del pianismo di sempre. Questa statura straordinaria di Pollini ha portato negli anni anche, un po’ come avviene nelle guerre di religione, ad agiografie o a demolizioni. È quello che è spesso avvenuto con artisti di altissimo livello, come la Callas o Michelangeli – peraltro molto diversi da Pollini. Fra i contenuti più emblematici di questi giorni, ho letto un lungo post del pianista francese François-Frédéric Guy, intitolato “On voulait être Pollini” (Volevamo essere Pollini), “non per pretensione o per follia, ma per necessità”. Guy spiega che la forza, l’energia vitale prometeica, il sentimento volontarista che il pianista milanese
C’è poi un altro aspetto, ben evidenziato in un bellissimo post di Alexander Lonquich (e poi dicono che i social non servono a niente!): Pollini era l’incarnazione di un approccio “strutturalista” che si impose in quegli anni, granitico, ferreo nel controllo dell’andamento del tempo, tendente a dipanare i dubbi e le ambiguità per risolversi nella “massima serietà, chiarezza e limpidezza”. Questa chiarezza era per Pollini anche una volontà di comunicare al pubblico nel modo più limpido possibile il messaggio del testo. Ma dire che quello di Pollini fosse l’unico modo possibile di avvicinarsi alla Verità del Sacro Testo sarebbe sbagliato: Pollini era Pollini anche perché interprete del proprio tempo, non strettamente come filologo (e infatti agli strumenti storici non
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