In un recentissimo CD della Velut Luna con composizioni dell’epoca barocca e rococò, eseguite da specialisti del calibro di Mario Folena, Roberto Loreggian e Francesco Galligioni, viene preso in esame un aspetto affascinante e poco conosciuto, quello che riguarda il canto di questi animali, che divenne motivo di imitazione per il mondo dei suoni del XVII e XVIII secolo, ancor prima del grande interesse manifestato nel Novecento da Olivier Messiaen. La musica nata dagli uccelli Chiunque conosca un minimo l’opera di Olivier Messiaen, sa perfettamente che il grande compositore francese fu affascinato dal canto degli uccelli, al punto tale da affermare che essi fossero i più grandi musicisti sulla Terra. Non solo, ma proprio per via della sua sconfinata ammirazione nei confronti di questi animali con le ali giunse a definirsi non tanto musicista, quanto piuttosto un «ornitologo e un ritmista». Quindi, non c’è da sorprendersi se nel corso dei suoi frequenti viaggi, fatti in tutto il mondo, Messiaen ebbe modo di ascoltare e registrare il canto di numerosi uccelli, realizzando delle trascrizioni (soprattutto per pianoforte, ma anche per orchestra), tra cui la più celebre è sicuramente il Catalogue d’oiseaux , composto tra il 1956 e il 1958. Oltre a rappresentare opere musicali a sé stanti, queste trascrizioni vennero inserite in gran parte delle sue opere più famose, come nella Sinfonia Turangalîla e nell’opera lirica San Francesco d’Assisi . Ma per capire come la musica si accorse del canto degli uccelli e della sua profonda bellezza, non si è dovuto attendere l’arrivo del grande compositore francese, visto che già da molto tempo prima il mondo dei suoni creati dall’uomo cercò di assimilare, imitare e sviluppare quello creato da questi animali, senza contare che anche il mondo della scienza e dell’erudizione s’interessò, con l’avvento del razionalismo, ad essi, come dimostrato da quanto fece il gesuita tedesco Athanasius Kircher, il quale nel suo trattato Musurgia universalis sive Ars magna consoni et dissoni , stampato nel 1650, riportò addirittura delle rozze trascrizioni dei canti di alcuni uccelli, tra cui quello del cuculo, le cui note furono fissate in una terza discendente. Tale interesse, anche da parte della scienza, non deve dunque meravigliarci, se si tiene conto che i ritmi, le modulazioni, i glissandi e gli intervalli (questi ultimi più o meno assimilabili a quelli della scala temperata) dati dal canto degli uccelli rappresentano elementi appartenenti di diritto al mondo musicale, anche se le armonie elaborate da questi animali possono sfuggire alla comprensione umana, come ben comprese Giacomo Leopardi che, in un passaggio del suo Zibaldone, scrisse: « Ed io sono persuaso che il canto degli uccelli li diletti, non solo come canto, ma come contenente bellezza, cioè armonia, che noi non possiamo sentire non avendo la stessa idea della convenienza de’ tuoni », facendo intendere come
il concetto stesso di bellezza, al di là della comprensione umana, sia fonte di perenne mistero. E se vi è stata un’epoca durante la quale la musica ha cercato la bellezza e l’armonia, per dirla con il sommo poeta recanatese, espressa dal canto degli uccelli, questa è stata sicuramente quella che è racchiusa nel fenomeno del barocco fino alle ultime propaggini del rococò, quindi dall’inizio del XVII secolo fino alla seconda metà di quello successivo. Ora, una recentissima pubblicazione da parte dell’etichetta Velut Luna permette di farsi un’idea più precisa di come gli autori barocchi abbiano cercato di esaltare con la loro arte e con gli strumenti musicali del tempo il canto di diversi uccelli; questo progetto porta il titolo di L’uccellaja – Music inspired by the birds singing between the 17th and 18th centuries e lo si deve a tre interpreti specializzati nel repertorio barocco, Mario Folena al traversiere e flauto d’amore, Roberto Loreggian al cembalo e Francesco Galligioni al violoncello e viola da gamba, i quali hanno registrato venti brani di sedici autori e di due anonimi a cavallo tra i due secoli in questione. Autori celebri ai più, come Georg Philipp Telemann, Baldassare Galuppi, Antonio Vivaldi, Georg Friedrich Händel, con altri non così famosi, ma non per questo meno importanti, quali i francesi Louis-Claude
di Andrea Bedetti
Daquin, Michel Corrette, Antoine Dornel, François Philidor, Jean-Baptiste de Bousset, Jacques Hotteterre, Joseph Bodin de Boismortier e Jacques-Christophe Naudet, gli italiani Alessandro Poglietti, Francesco Bartolomeo Conti e Alessandro Speranza, e l’austriaco Johann Heinrich Schmelzer. Sia però chiaro un aspetto e che riguarda un concetto che va oltre questa pregevolissima ed interessantissima registrazione, ossia quello che riguarda il contesto della musica strumentale nello spazio temporale preso in esame, soprattutto all’inizio del Seicento, quando l’avventura degli strumenti musicali, considerati individualmente o coinvolti formando così un ensemble, era ancora agli inizi, se per inizi consideriamo il loro svincolarsi dal plurisecolare accompagnamento della voce umana. Senza la presenza
Il compositore e organista francese Michel Corrette.
confortante, ineludibile, almeno fino a quel momento, tranne qualche rarissima eccezione, riguardante innanzitutto la musica da ballo e quella popolare-profana, della voce umana, gli strumenti, a cominciare da quelli ad arco, per enunciare il loro suono fecero affidamento sulla pratica dell’imitazione, ossia facendo finta di essere per poter rappresentare. Tale prassi imitativa, all’inizio, coinvolse proprio ciò che era venuto a mancare fino a quel momento, vale a dire la voce umana, portando la ricerca strumentale ad imitare la presenza di quell’assenza, facendo in modo che strumenti ad arco come i violini e a fiato come i traversieri potessero appoggiare il loro eloquio,
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