GrooveBack Magazine 003

La mia scelta è caduta, a livello di presa del suono, su una registrazione orripilante e su una, invece, eccelsa. Perché questa scelta “dalle stalle alle stelle”? Semplice, per vagliare e testare la naturalezza esaltata da Villani per i suoi cavi, una qualità che evidenzia ulteriormente ciò che c’è di male e di bene in una registrazione. Quindi, ho appoggiato la testina del mio Gyrodec Michell su un vinile della famigerata Deutsche Grammophon, famigerata nel senso che a partire dagli anni Settanta e, soprattutto, negli anni Ottanta fu artefice di una serie di prese del suono da fare accapponare

la pelle (e le orecchie degli audiofili). Come quella in questione, con l’ottimo Claudio Abbado che dirige i Wiener Philharmoniker nelle Ventuno danze ungheresi di Johannes Brahms, un LP risalente al 1983, con il master già in versione digital, vale a dire la perversione travestita con i panni di Cenerentola. La peculiarità di queste prese del suono e di questo tipo di master fu di restituire un suono di una metallicità a dir poco spaventosa, spigoloso, repellente a qualsiasi tipo di rotondità e di sfumature timbriche, insomma uguale a quello presente nei primi CD di quel decennio, né più né meno. Quindi, se un neofita volesse

I connettori Furutech dei cavi sbilanciati, di ottima fattura e solidità.

avvicinarsi al meraviglioso mondo dell’analogico non dovrebbe mai cominciare da queste incisioni, ma starci alla larga, come se si trattasse della peste bubbonica. Ad ogni modo, è sufficiente ascoltare la prima di queste meravigliose Danze, basata su un fremente dialogo tra gli archi e i fiati, per constatare la piattezza della scena e l’infausto impasto timbrico che proviene da queste due sezioni orchestrali, con una dinamica floscia come un soufflé miseramente fallito e con una ricostruzione spaziale sottile come una sottiletta di formaggio. Ora, non dico che l’intervento dei Reference RCA abbia trasformato questa registrazione in un novello Lazzaro, del tipo “alzati e suona come Cristo comanda”, ma almeno è riuscito a tirare fuori dalla camera iperbarica del vinile un po’ più di slancio (lo si capisce dall’attacco e dai ff enunciati dai violini e dalle viole), oltre a definire e a scontornare con maggiore correttezza gli strumentini, che finalmente riescono a capire dove devono posizionarsi all’interno della compagine viennese. E poi, miracolo!, al posto di seghe da falegname, i professori preposti agli archi scoprono di avere un archetto in mano, il che, anche se non restituisce come si dice sempre in casi del genere, “setosità”, quantomeno non massacrano le orecchie con uno sfregare che a lungo andare dà, ve lo assicuro, sui nervi, poiché la naturalezza che i Reference vantano, permette di andare a raschiare il fondo del barile e a portare a galla quella decenza timbrica, quel respiro orchestrale, che evitano di prendere il vinile in questione e di usarlo per allenarsi per le prossime Olimpiadi nella specialità del lancio del disco. Queste le stalle, passiamo adesso alle stelle, almeno in confronto alle stesse stalle. Nel senso che ho preso in esame un’altra registrazione dello stesso periodo, per l’esattezza del 1984, dell’etichetta tedesca MDG (acronimo che sta per Musikproduktion Dabringhaus

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