Figlio di un capoverdiano e di una irlandese, questo pianista si è sempre caratterizzato come un compositore poliglotta affascinato da una mescolanza di linguaggi, apportando sistematicamente elementi di esoticità a vari livelli nell’ambito del jazz. Horace Ward Martin Tavares Silva, questo il suo vero nome, è stato una delle figure più rappresentative dell’hard bop, prima con i Messengers di Art Blakey, con cui inizialmente divideva la leadership, quindi protagonista di un nutrito catalogo discografico come band-leader. Ritratto di Horace Silver con ingrandimento e cornice di Francesco Cataldo Verrina
Soul Sister del 1968, così come il suo capolavoro Song For My Father del 1965 - che analizzeremo in questo articolo - provengono tutti da session ben organizzate con fior di musicisti, il meglio di quanto potesse offrire la scena bop in quel momento; deponeva oltremodo a favore dei vari lavori di Horace Silver, l’immediatezza e la facilità di fruizione. L’abilità nel saper scrutare le nuove istanze della black music , certe accentazioni funkified e quel suo indugiare in accattivanti melodie di stampo soul , sono stati elementi fondamentali nei suoi dischi e propedeutici a un facile impatto sul mercato. Quasi tutti gli album di Horace Silver sono assurti allo status di classici. Al netto dei risultati in termini di vendita dell’uno piuttosto che di un altro, tutti i lavori del capoverdiano editi dalla Blue Note costituiscono un punto di riferimento per gli appassionati di un peculiare tipo di hard bop formulato attraverso una combinazione di elementi molteplici provenienti dal continente latino e dal comparto soul-funk . Ancora oggi i dischi del nostro pianista possono essere una valida piattaforma di studio per quanti amano penetrare la sintassi jazzistica, senza temere di essere tacciati di revivalismo, così come accadde a famosi «giovani leoni», Wynton Marsalis, Wallace Roney o Terence Blanchard, accusati, sul calare degli anni Ottanta da una certa stampa, di essere dei cloni e degli impostori, poiché cercavano di perpetuare la musica dei loro anziani predecessori, tentando di riprodurre le sonorità di Horace Silver, di Art Blakey et similia , anziché continuare laddove le avanguardie avevano interrotto. La storia ha loro dato ragione e, ancora oggi, il cosiddetto mainstream confezionato in casa Lion continua a destare interesse fra i giovani e ad essere un’importante via di accesso al jazz. Horace Silver fu uomo d’azienda e di fiducia dell’opificio Blue Note, amico e confidente personale del patron , anche se nei lunghi anni di militanza attiva non è mai stato un vero capo tribù, ma piuttosto un capo guerriero. Al fine di agevolare la comprensione della belluina metafora, si potrebbe aggiungere come elemento chiarificatore che Cochise, ad esempio, era un capo tribù, tipo Art Bakley, mentre Geronimo era un capo guerriero, proprio come Silver, un autentico stratega musicale, in grado di organizzare le truppe, arrangiare e dirigere i musicisti sul piede di guerra durante una sessione. Analizzando i fenomeni con attenzione, ci si accorge che uno degli album realizzati per l’etichetta di Lion svetta qualche spanna al di sopra della media del periodo. Further Explorations By The Horace Silver Quintet ha una marcia in più e un differente mood , dovuti con buona probabilità alle variazioni di line-up . In effetti, il cambio di collaboratori fu determinante, se non altro rigenerante. La progressione dell’onda sonora si ramifica oltre il suo abituale linguaggio, irrorando la linfa delle tipiche melodie di Silver con ritmi più esotici. Progettato con cura, l’album, pur aderendo alle istanze dell’ hard bop di quegli anni, tenta una via obliqua e innovativa rispetto alla solita scrittura di Silver e al suo concetto di pianoforte. L’ensemble di Further Explorations è coeso e determinato, basilare l’innesto di Art Farmer che contribuisce con assoli eleganti e imprevedibili rendendo il suono più cristallino. Alla fine, sembrerebbe che sia più un album di Farmer che di Silver o, comunque, un progetto in comproprietà: Farmer non era artista facilmente circoscrivibile in un preciso schema operativo.
Pur nella sua enorme popolarità, Horace Silver, per molti resta un enigma avvolto in un mistero: genio o stregone? Sicuramente, un posto al caldo nella storia del jazz se lo è guadagnato: il suo ticket con la Blue Note per lunghi anni fu determinante per numerosi lavori, anche per conto terzi, che uscivano da quella fucina di talenti. Molti dischi da lui realizzati in casa Alfred Lion appaiono talvolta immolati allo stesso dio, schematici, magari fatti con lo stesso stampo, in maniera impeccabile ma un po’ studiati a tavolino, quasi con scadenza fiscale; di certo esiste un marchio di fabbrica ben preciso nelle sue produzioni e un metodo di lavoro non dissimile alla catena di montaggio messa in atto dalla Motown, fucina di successi in quello stesso periodo sul versante Soul-R&B. Il dispiegamento di uomini e mezzi fu notevole e, commercialmente parlando, il periodo Blue Note di Horace Silver da sempre seduce le masse e gli appassionati del cosiddetto soul-jazz. Album come Further Explorations del 1958, Blowin’ The Blues Away del 1959, Serenade To A
Il pianista Horace Silver, uno dei padri putativi dell’hard bop.
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