Verde per i ritmi del Sud del mondo. Horace Silver era un uomo dalle molte radici familiari e sonore, che aveva disinvoltamente incorporato nella sua musica, sempre molto diretta, calda e coinvolgente, in perfetto equilibrio tra hard bop e latin-soul-jazz . In questo album vari elementi coabitano pacificamente in un perfetto equilibrio: l’atmosfera bossa nova della title-track Song for My Father , l’orientaleggiante incedere di Calcutta Cutie e il mood tropicale di Que Pasa? . Il pianista era noto per essere un perfezionista durante le sessioni di registrazione: fu questo uno dei motivi per cui pubblicò pochi dischi dal vivo, manifestando apertamente un’ossessione per il suono di altissima qualità, caratteristica assai evidente in quasi tutti i suoi album.
dei momenti più convincenti del disco, caratterizzato dalle marcate incursioni poliritmiche di Roger Humphries; ottime per struttura ed esecuzione anche Que Pasa? e Lonely Woman . Pubblicato nel 1965, Song For My Father, come già detto, nasce da un’insolita sessione di tipo split . Una parte dell’album è suonata dal classico quintetto di Silver (al piano) con Blue Mitchell alla tromba, Junior Cook al sax tenore, Gene Taylor al basso, Roy Brooks alla batteria. L’altra parte vede sul set Silver al piano, Carmell Jones alla tromba, Joe Henderson al sax tenore, Teddy Smith al basso e
Silver amava circondarsi di un cast di talenti a rotazione, alcuni spesso sconosciuti, molti dei quali sarebbero diventati dei veri punti cardine del jazz moderno. Solo i Messengers, sotto l’egida dell’amico Art Blakey, dimostrarono maggior fermento come scuola di vita e laboratorio aperto ai talenti emergenti. Song For My Father proviene da tre distinte sessioni spalmate nell’arco di un anno, dall’ottobre 1963 all’ottobre 1964 (31 ottobre 1963, 28 gennaio e 26 ottobre 1964), con due diversi line-up . L’ordine dei brani, come originariamente concepito, mostra la formidabile intuizione del produttore Alfred Lion, il
Ancora l’Horace Silver Quintet nel corso di un concerto nel dicembre 1960, con in primo piano lo stesso Horace Silver, Gene Taylor e Blue Mitchell (© jazzinphoto).
Roger Humphries alla batteria. Si potrebbe pensare a un «taglia e incolla» ma, ascoltando l’album, non si percepiscono sbavature o marcate differenze fra le due compagini: il lavoro risulta lineare e omogeneo. Il focus centrale è dettato dal tocco di Silver, quel tanto che basta per far emergere la sua classe nascosta, una scrittura accattivante e il suo lussureggiante marchio di fabbrica. Song For My Father è un album meno concentrato sulle apparenze e sulla forma e più sulla sostanza: il pianista-leader contiene e smorza le esuberanze di entrambi i gruppi, legandoli insieme in maniera straordinaria; rifugge la complessità armonica e la sperimentazione fine a se stessa, incarnando il buon vecchio modo di concepire il jazz come una formula accessibile che mantiene la sua originaria componente blues e gospel. Silver in fondo era una persona sorridente e positiva come il suo modo di suonare. Era solito dire: « Personalmente non credo nella politica, nell’odio o nella rabbia da riversare nella composizione musicale (...) La musica dovrebbe portare felicità e gioia alle persone e far dimenticare loro i problemi ». ( Horace Silver Quintet - «Song For My Father», 1965 ). Nei sette minuti di Psychedelic Sally Horace Silver stabilisce ancora le linee guida di quello che sarà un genere molto imitato, a partire dalla fine degli anni Sessanta e per tutti i Settanta, da una nuova generazione di musicisti di colore, i quali cercheranno di trovare sempre più punti di contatto tra il jazz e altri derivati del blues . Alcuni di essi scivoleranno sul terreno più impervio della fusion o planeranno sui morbidi cuscini di un rassicurante smooth , di cui soul e funk costituivano due ingredienti indispensabili, quasi un’alternativa alla fusion jazz-rock più vicina a taluni stilemi praticati «dall’uomo bianco». Serenade To A Soul Sister è una potente mistura di funk anni ‘60 e bop anni ‘50, che nasce dal perfetto sodalizio tra il pianista più funky del jazz moderno, Horace Silver, e il sassofonista più soulful della storia del bebop , Stanley Turrentine, spintonati da Charles Tolliver, trombettista dal tono deciso e robusto. Ecco, dunque, scodellata una delle migliori pietanze discografiche a base di soul-jazz mai servita in casa Blue Note.
L’Horace Silver Quintet.
quale aveva esortato Silver a scritturare Carmell Jones, Joe Henderson, Teddy Smith e Roger Humphries. La coppia d’attacco Carmell Jones alla tromba, ma soprattutto Joe Henderson al sax tenore, con un esemplare lavoro sulla melodia, conferiscono gli attributi alla title-track : dopo l’introduzione iniziale del piano di Silver, i due fiati iniziano una narrazione chiara e avvincente, Silver riceve presto il nulla osta al suo primo intervento in solitaria che onora attraverso una zampillante e variegata progressione armonica, sostenuta dalla retroguardia foriera di un certosino e calibrato apporto ritmico; la staffetta passa dunque a Henderson che si evidenzia per il suo modo di improvvisare angolare e tortuoso da cui scaturisce uno dei migliori assoli di sax tenore di tutti i tempi. L’album nella sua totalità è un concentrato maestoso di tromba e sax tenore con assoli infuocati ma mai eccessivamente lunghi e verbosi, mentre il pianoforte di Silver trama su un sublime telaio di note agrodolci, suggerendo una struttura formale, che aleggia su tutto il procedimento, ma senza restrittive imposizioni sui sodali. Tra i momenti salienti dell’album, una menzione speciale va a Calcutta Cutie registrata con una formazione completamente diversa, con il trombettista Blue Mitchell e il sassofonista tenore Junior Cook, spesso trascurato dai libri di storia. L’unica traccia non scritta da Silver, The Kicker , a firma Henderson, che da solo vale il prezzo della corsa, si caratterizza come uno
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