GrooveBack Magazine 003

Nonostante la complessa operazione di riesumazione, una volta riapparso, Macbeth non ha più conosciuto forme di oblio. Non a caso, a soli pochi anni dalla produzione discografica favorita dal Metropolitan, Decca mise nel proprio catalogo la prima versione di quest’opera che veramente promanasse dall’esperienza teatrale. Correva l’anno 1964 e sul podio c’era Thomas Schippers, altro illustre rappresentante del teatro statunitense. Schippers, come farà con La forza del destino , registrata in quello stesso anno, approccia Verdi con un’idea di teatro lontanissima da ogni estetica corrente ancora in quegli anni. I tempi sono spesso indugianti, larghi, gli accenti e il piglio meno aggressivi, vasto lo spazio per il canto. A scanso di equivoci sarà meglio dire che Macbeth e la Lady di questa edizione, ovvero Taddei e Nilsson, non sono stati più eguagliati nelle edizioni successive, per quanto popolate da interpreti di levatura storica. Taddei, con Gobbi, Cappuccilli, Bruson e Nucci, appartiene dunque alla prima generazione italiana di creatori di questo ruolo. Di grande rilievo, come tutte le interpretazioni di

dramma è operazione di collettivo impegno interpretativo e musicologico. È un’edizione che ha giustamente incontrato il favore di due generazioni di ascoltatori, ma che denuncia indubbiamente anche le due caratteristiche che spesso fanno la grandezza e il limite di Claudio Abbado: la capacità analitica e la modesta inclinazione al coinvolgimento emotivo. O, meglio: un coinvolgimento eccessivamente temperato dalla ragione e ricondotto a più classica misura. Il che, soprattutto nel Verdi

Lamberto Gardelli, è il Macbeth registrato da Decca nel 1970 e ripresentato recentemente da Urania in seguito a un accurato restauro: un’edizione in cui il protagonista, il baritono tedesco Dietrich Fischer-Dieskau, offre del personaggio verdiano un’interpretazione profonda, meditata parola per parola, quasi con un risvolto psicanalitico. L’edizione gode poi, oltre che della Lady di Elena Suliotis, della straordinaria, freschissima e incisiva voce di Luciano Pavarotti nel ruolo di Macduff. Il 1976 è l’anno aureo per Macbeth . Concorrono a definirlo tale due registrazioni ormai storiche e di perenne attualità: quella prodotta da Claudio Abbado alla Scala e la versione londinese di Muti. La lunga stagione

giovanile, tende ad abbassare la temperatura del fuoco espressivo e a rendere la tensione, più che accademica, controllata scientificamente. Lo si vede nitidamente in questa edizione. Cappuccilli si conferma il grande Macbeth interiore e sgomento di fronte alle più orride mutazioni dell’istinto. Il personaggio lo ha studiato e approfondito in misura straordinaria, senza mai lesinare uno sforzo per raggiungere l’espressione esatta e conforme al momento narrativo. Inutile farne ulteriori elogi. Appartiene ormai ai classici del canto verdiano. Particolare, invece, la Lady di Shirley Verrett, la più umana delle Lady, quella in cui senti lo sforzo di essere quella che è. Ma non è lo sforzo di una cantante americana intesa a possedere un ruolo. Tutt’altro. È l’impegno di un’anima a piegarsi ai propri demoni, costi quello che costi. E in questo la Verrett è stata veramente geniale. Non potendo fare di lady Macbeth qualcosa di diverso da ciò che è, ne ha trapunto l’anima di infiniti dubbi, e ho mostrato, con innumerevoli aspetti vocali, l’impegno ad accettarsi nella propria natura, vittima di una volontà che la spinge ad agire anche contro un suo remoto senso della pietà. Davvero straordinario. Forse non vero, né in Shakespeare né in Verdi, ma nondimeno straordinario, e soprattutto psicologicamente plausibile. Macbeth , dopo la parziale riuscita di Aida , è la prima incisione storica di Muti. E già al primo ascolto ci si rende conto dell’impressionante lavoro svolto dal direttore e soprattutto di essere di fronte a uno dei primi capitoli di una revisione totale dell’opera di Giuseppe Verdi. Qui non c’è più posto per quella parzialità ricreativa che ha sottratto a Verdi, per più di un secolo, la propria anima. Siamo nel cuore del Romanticismo europeo, lo stesso di Liszt e Berlioz, e il trattamento orchestrale vi è conforme. Le colossali campate entro cui Muti inquadra il disegno mostruoso di Shakespeare danno la stessa idea (mi rifaccio al cinema attuale) di certe ricostruzioni di storia medioevale restituite dalla migliore computer grafica. Le streghe e i loro fetidi antri sono evocate dal colore oscuro (più che scuro) dei timbri raggelati dei fiati e degli strumentini, non meno che dal fraseggio degli archi: duro, accentato, lacerante. Capisci, dopo poche

nel massimo teatro milanese, l’esclusiva discografica con una major del disco, l’attesa di un direttore italiano che rinverdisse i fasti toscaniniani o continuasse la carriera interrotta dalla morte di Guido Cantelli, aveva fatto sperare che l’esperienza verdiana di Abbado trovasse un esito più articolato di quanto poi è stato. Aldilà di questo splendido Macbeth e di Simon Boccanegra , ambedue collocabili negli anni Settanta, il Verdi di Abbado è di fatto stato ininfluente. Niente Nabucco , Ernani , Luisa Miller , Rigoletto , Il Trovatore , La traviata , Otello , La forza del destino . Solo Falstaff a settant’anni e sporadiche invasioni, abbastanza sterili, nei territori di Aida e di Un ballo in maschera . Don Carlos solo in francese e privo delle cifre senza dubbio interessanti espresse a Milano sempre negli anni Settanta. A soli ventiquattro anni di distanza dall’edizione di De Sabata, il Macbeth di Abbado, in termini di melodrammaturgia, sembra lontano venti secoli da quella produzione. Siamo letteralmente in un’altra era, e il Verdi di cui qui si tratta è un autore totalmente riscoperto, ammirato, e per il quale metterne in scena un

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