Sandro Vero ci spiega in questo articolo le differenze che si possono percepire nella riproduzione sonora tra questo genere e la classica, evidenziando come diverse etichette discografiche votate alla musica afroamericana colta non abbiano avuto le stesse accortezze e le medesime finalità di registrazione rispetto alla musica cameristica e sinfonica. Ascoltare il jazz, pregi e difetti di Sandro Vero Se ascoltare la musica è una cosa problematica, ascoltare il jazz è un vero ginepraio. Le ragioni di questa affermazione perentoria sono molteplici, ma si può partire da un dato fondamentale: l’ascoltatore di jazz è quasi sempre ossessionato - anche se si tratta di un’ossessione in larga misura inconsapevole - dal concetto di “ambienza”, e ciò perché il suo criterio principale è la dimensione live della musica riprodotta. Giusto ricordando la caratteristica saliente di questa musica e il suo carattere in gran parte improvvisato, ci si aspetta che tale elemento possa (debba?) trovare la sua esaltazione dalla sensazione che ciò che si ascolta sia prodotto quanto più possibile dal vivo. Che questo sia il punto cruciale lo dimostra un fatto: i produttori discografici più sensibili alle chiamate audiofile, e spesso si tratta di tecnici del suono che lavorano nell’ambito della produzione musicale, curano in maniera quasi maniacale proprio il fattore dell’ ambienza , vale a dire quell’elemento della riproduzione che marca, favorisce, amplifica il senso
capace a sua volta di generare l’esperienza dell’evento prodotto dal vivo, dunque senza stratagemmi tecnologici, nella pura e semplice creazione musicale.
Ricci e Lincetto sono i guru di piccole realtà discografiche, mentre Manfred Eicher è il factotum dell’ECM, la fortunata casa bavarese che ha definito uno standard estetico basato sul silenzio. E sull’ambienza, appunto, come testimoniato dalle sue produzioni, specie quelle di taglio cameristico , che propongono un jazz contaminato da suggestioni europee, nordiche. E così, se la dinamica è il valore che più appassiona l’ascoltatore di musica classica, l’ambienza - intesa appunto come ricostruzione dello spazio fisico
Manfred Eicher, fondatore della celebre etichetta discografica ECM.
e sonoro in cui la musica è stata prodotta (e dunque registrata) - è ciò che più di altri valori attrae l’ascoltatore di jazz. Ma, anche qui, ci si trova al cospetto di un paradosso: le pietre miliari del jazz, le incisioni che hanno fatto la sua storia, provengono tutte da registrazioni in studio. Pochissime eccezioni fanno, come al solito, una regola: le serate al Village Vanguard del trio di Bill Evans, risalenti al 1961, raccolte da pochi anni in un fantastico box coi vinili da 180 gr., segnarono lo zenit dell’ interplay nel trio canonico di piano, basso e batteria. Né prima né dopo i musicisti che hanno scritto la storia del jazz hanno segnato una bandierina significativa in una registrazione live : gli Hot Five di Armstrong, I Savoy di Parker, gli Atlantic e gli Impulse di Trane, i Columbia di Davis. Tutti rigorosamente partoriti dentro uno studio.
del contesto fisico in cui la musica è registrata. Dunque, il carattere live non è solo quello offerto dai concerti registrati ma diventa, con l’attenzione di non introdurre aspetti artificiosi, la qualità di una registrazione in studio (anche se spesso si tratta di uno studio trasportato all’interno di una chiesa o di un auditorium).
L’ascoltatore raffinato di jazz si trova dentro un vero dilemma: il suo modello è quello del live , la sua discoteca significativa è fatta interamente di dischi registrati in sedute rigorosamente in studio. Da qui, con una frequenza elevata, il compromesso: musica registrata in uno spazio controllato, tecnicamente predisposto, ma con una modalità esecutiva quanto più possibile live , dunque senza sovraincisioni, tagli, ricuciture e quant’altro. Chi sa qualcosa della modalità produttiva di un tale Teo Macero, a lungo producer di Davis, sa bene che a partire da Miles in the Sky , e soprattutto con In a Silent Way e Bitches Brew , i dischi del divino trombettista furono invece il frutto di una sapiente regia fatta di tagli, reiterazioni, cuciture, sovraincisioni.
Rudy Van Gelder, uno dei più famosi ingegneri del suono consacrati al jazz.
I dischi di Giulio Cesare Ricci della Fonè o di Marco Lincetto per la Velut Luna sono esempi emblematici di questa estetica riproduttiva che premia, nella maniera più raffinata, le esigenze dell’ascoltatore jazzofilo: opere dall’organico minimalista, timbricamente esaltanti, dalla corretta dinamica, che restituiscono con le loro nuances un’esperienza dell’ambiente
Marco Lincetto, patron della Velut Luna.
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