GrooveBack Magazine 006

Chick Corea: L’anticonformista , ho designato come la cifra dialettica fondamentale del musicista, ossia la tensione costante fra la volontà di aderire a una forma e la pulsione a oltrepassarla, generando così una musica capace di muoversi simultaneamente entro e fuori i confini del genere. Il decennio successivo vide Corea moltiplicare le configurazioni e le tipologie di ensemble: dai quartetti acustici con Joe Henderson, Roy Haynes e Miroslav Vitouš, fino a l’Elektric Band e all’Akoustic Band, attraverso cui sondò, in parallelo, le possibilità della tecnologia e la solidità del mainstream . Tale molteplicità di iniziative non rappresentò mai dispersione, bensì un modo di concepire l’identità musicale come un prismatico riflesso, perennemente, cangiante. Il suo pianismo, connotato da un tocco cristallino e da una predilezione per intervalli aperti e accordi sospesi, si radicava in una matrice di pensiero armonico che, pur partendo dal bebop , si spingeva verso soluzioni più ariose, talvolta sfiorando un minimalismo di matrice colta. Nel corso degli anni, le collaborazioni furono innumerevoli, e sempre contrassegnate da una disponibilità al dialogo. Si pensi ai progetti con Herbie Hancock, in cui due pianisti di diversa estrazione si confrontarono in duetti memorabili, capaci di mettere in scena una dialettica tra lirismo e virtuosismo. Non meno significativi i sodalizi con musicisti di area latina, da Paco de Lucía a Gonzalo Rubalcaba, nei quali il pianista italo-americano tornava a riaffermare la sua inclinazione mediterranea, generando incontri in cui la tradizione flamenca e cubana si fondevano con la libertà improvvisativa jazzistica. L’ultima fase della sua parabola non fu segnata da un ripiegamento, ma piuttosto da una vitalità inesauribile. Progetti come la Five Peace Band con John McLaughlin, la rilettura di Mozart con Bob McFerrin o le rivisitazioni orchestrali di temi storici attestano la sua abilità nel saper rigenerare continuamente materiali pregressi, rivestendoli di inedite vesti senza mai cadere nella celebrazione nostalgica. La musica di Corea, in tal senso, appare come un organismo vivente, sempre in trasformazione, teso a rimodellarsi incessantemente in funzione dei contesti e degli interlocutori. Confrontando Corea con Bud Powell, si coglie immediatamente l’ascendenza bebop che funge da matrice remota. Powell fu il primo a trasferire sul pianoforte il linguaggio di Charlie Parker, trasformando lo strumento in un veicolo per linee velocissime e accordi ridotti all’essenziale. Corea ereditò, idealmente, da Powell non solo la tensione motoria della mano destra, ma anche l’idea che l’improvvisazione dovesse svilupparsi come discorso coerente, non come accumulo casuale di formule. Tuttavia, laddove Powell rimase ancorato a una grammatica armonica basata su funzioni tradizionali e progressioni II-V-I, Corea preferiva dissolvere i vincoli, utilizzando accordi quartali, policordi e campi modali. Powell concepiva la tastiera come spazio lineare, Corea la considerava alla medesima stregua di un cantiere in costruzione, sempre aperto, in cui le armonie si erigono come pilastri e le melodie si librano fra di essi. In questa differenza risiede la distanza tra il pionierismo bebop e la modernità coreana, in grado di modificare di dettami di un’eredità, facendone un prisma cangiante. Il confronto con Bill Evans apre un altro capitolo. Evans, spesso considerato l’ alter ego pianistico di Debussy e Ravel all’interno del jazz, sviluppò una sonorità vellutata, fondata su accordi stratificati e su un senso di cantabilità che nobilitava ogni linea melodica.

Corea s’imbatte in Evans nella predilezione per le armonie sospese e le atmosfere impressionistiche, ma se Bill tendeva verso una malinconia introspettiva, Chick v’innestava una tensione ludica e una vitalità ritmica che impedivano il ripiegamento elegiaco. Evans dipinse acquerelli sonori, Corea costruì mosaici variopinti. Nel primo

ha prevalso la dissoluzione contemplativa, nel secondo l’energia combinatoria. Il paragone fra i due richiama Thomas Hardy e Italo Calvino, entrambi profondi, ma l’uno orientato verso il pathos elegiaco, l’altro verso la leggerezza immaginifica. Spostando lo sguardo al presente, un parallelo illuminante si può tracciare con Brad Mehldau, pianista americano che condivide con Corea la predilezione per la costruzione motivica e per lo sviluppo costruttivo delle improvvisazioni, ma la sua estetica risulta segnata da una riflessione introspettiva che spesso si radica nella cultura pop e rock contemporanea. Mehldau appare come un flâneur musicale, capace di tradurre un tema dei Beatles in un poema polifonico; Corea, invece, è restato legato a un universo di riferimenti che si muoveva fra il

Chick Corea in una foto della fine degli anni Settanta.

vernacolo afroamericano e le risonanze classiche. Entrambi amano dissolvere i confini, ma Corea lo faceva in un’ottica di espansione cosmica, Mehldau in una direzione diaristica e intimistica. Se Chick evocava gli spazi ampi di un Borges, intento a costruisce biblioteche infinite, Brad ricorda un Proust che annota minuziosamente le sfumature del tempo interiore. Un’ulteriore comparazione si può istituire con Hiromi Uehara, esponente di una generazione in cui l’energia virtuosistica e la contaminazione stilistica sono portate all’estremo. Hiromi ha ereditato da Corea non solo una parte della grammatica armonica e ritmica, ma soprattutto la libertà di concepire la tastiera come orchestra totale. Tuttavia, laddove Corea, anche nelle fasi più elettriche, conservava un equilibrio tra forma e invenzione, Hiromi tende a spingere verso l’eccesso, in direzione di un virtuosismo spettacolare. Chick sapeva quando tacere, quando lasciare spazio al silenzio, Hiromi sembra voler colmare ogni interstizio. Si potrebbe dire che la sua estetica sia affine a quella di un futurismo trasposto in chiave pianistica, mentre Corea conserva sempre una misura classica che lo riconnette a un ordine superiore.

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