GrooveBack Magazine 006

visione coerente in cui le scelte armoniche, i disegni melodici e le strutture ritmiche concorrono a delineare un discorso ininterrotto. La tavolozza armonica si fonda su una predilezione per accordature quartali e quintali, capaci di generare verticalità ariose e trasparenti, spesso arricchite da estensioni superiori che conferiscono al tessuto sonoro una luminosità peculiare. Non vi è mai compiacimento decorativo, poiché i voicing , pur nella loro raffinatezza, mantengono una funzionalità diretta, consentendo di plasmare spazi sonori ampi in cui la melodia possa scorrere senza costrizioni. L’inclinazione a sovrapporre strutture apparentemente estranee, con l’uso di policordi e pedali prolungati, produce tensioni sospese che sfidano la consueta grammatica tonale, aprendo squarci su un orizzonte modale dove la stabilità e l’instabilità convivono in equilibrio dinamico. Il trattamento del materiale motivico, lontano dall’essere episodico, rivela un’ossessione per la coerenza interna. Il musicista del Massachusetts spesso trae da un nucleo tematico elementare una proliferazione di varianti, facendone oggetto di trasposizioni, inversioni o dilatazioni ritmiche. In ciò si scorge una continuità con il pensiero compositivo classico, dove l’improvvisazione diviene laboratorio di forme, e ogni cellula melodica si trasforma in germe generativo. La frequente discesa intervallare per terze, quasi una firma nascosta, ricorre in molte sue invenzioni, conferendo alla linea un moto di fluidità naturale che sembra scaturire da un canto interiore più che da un calcolo analitico. A livello pianistico, la mano destra predilige linee snelle e incisive, spesso basate su disegni pentatonici, arricchiti da acciaccature e note di grazia che intensificano la tensione espressiva. Tali linee si librano sopra la sinistra che, anziché limitarsi a un mero sostegno, intesse architetture solide, in virtù di voicing ampi e policentrici. L’effetto complessivo appare quello di un dialogo interno allo strumento, dove le due mani non fungono da gerarchie complementari ma da interlocutori paritari, entrambi attivi nella creazione della tessitura. La dimensione ritmica rappresenta un altro fulcro imprescindibile del suo stile. Corea non si abbandona mai a una scansione metrica prevedibile, preferendo destabilizzare l’ascoltatore con poliritmie, spostamenti d’accento e figure di hemiola, ossia di una particolare variazione ritmica, che insinuano un senso di ambiguità temporale. Tale procedimento, lungi dal generare caos, produce invece una sorta di danza perenne tra la pulsazione sottesa e la superficie musicale, un gioco dialettico che trasforma ogni frase in una sfida percettiva. Questa libertà, appresa in parte nell’alveo delle esperienze free-form con Circle, non rimane confinata all’avanguardia, ma viene trapiantata anche nelle strutture più liriche, dove un’apparente linearità melodica cela in realtà complessi slittamenti metrici. Il risultato di tali scelte converge in una concezione pianistica che non si accontenta né dell’eredità bebop né delle soluzioni impressioniste, pur assimilando entrambe. Corea, piuttosto, intesse un linguaggio che si muove per tensioni sospese e aperture improvvise, con una scrittura che predilige la chiarezza del disegno e l’opulenza espressiva. Il suo pianismo diviene così paradigma di una modernità che non rinnega le radici, ma le trasfigura in un tessuto nuovo, ove la disciplina armonica s’interseca con l’invenzione ritmica e la forza motivica con la libertà improvvisativa.

Un’immagine emblematica che sintetizza l’arte di Chick Corea, seduto tra il pianoforte e le tastiere elettriche, tra classicismo e modernità.

In sintesi, Powell rappresenta l’energia primaria, il magma bebop che Corea trasforma in architettura. Evans incarna il lirismo contemplativo che Corea assimila e trasfigura in vitalità ludica. Mehldau attesta come l’eredità coreana possa tradursi in una riflessione diaristica, mentre Hiromi dimostra come la sua lezione possa deflagrare in virtuosismo pirotecnico. Corea si colloca al centro, come punto nodale, poiché la sua musica si nutre del passato e anticipa il futuro, mantenendo una tensione dialettica fra rigore e invenzione, equilibrio e gioco, introspezione e spettacolarità. Si ha la percezione che il pianista italo-americano abbia agito da ponte, da mediatore, da architetto che raccoglie la tradizione e la rilancia in direzioni molteplici. Se Powell è la radice, Evans la liricità, Mehldau la riflessione interiore e Hiromi l’esuberanza contemporanea, Corea appare come un demiurgo che ha saputo integrare ognuna di queste istanze, restituendole in un linguaggio personale e inimitabile. La sua posizione nella storia del jazz, osservata in tale prospettiva, si mostra dunque come quella di un vero «anticonformista», non perché rifiuti il passato, ma perché lo reinventa continuamente, generando una tradizione nuova, capace di resistere anche nell’era del Web 4.0. L’universo pianistico di Chick Corea non si lascia ridurre a un repertorio di espedienti tecnici, giacché la sua scrittura e la sua improvvisazione derivano da una

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