GrooveBack Magazine 006

europea, in virtù di una chiarezza formale che rimanda al classicismo viennese. La scrittura appare nitida, ma la tensione ritmica mantiene una modernità ineludibile, come se Mozart fosse stato filtrato tramite la memoria di Thelonious Monk. Le armonie risultano più scabre e verticali, con largo uso di accordi dissonanti lasciati vibrare, che instaurano un dialogo diretto con la tradizione cameristica europea. A differenza del lirismo sospeso di Crystal Silence , il dettato accordale risulta spesso pungente, talora severo, come se il pianista volesse sondare la densità materica del suono. Sul piano ritmico, il trio agisce come una conversazione serrata: Haynes introduce figure irregolari, Vitouš interviene con linee spezzate e Corea risponde con un fraseggio che si muove a scatti, quasi fosse un dialogo socratico in forma sonora. Infine, The Elektric Band (1986) restituisce la vitalità della fase elettrica degli anni Ottanta. Corea si confronta con un linguaggio aggiornato, più vicino all’estetica digitale, con sonorità brillanti e strutture articolate in forme complesse. L’uso dei sintetizzatori non è più un semplice strumento di espansione timbrica, ma diventa parte integrante della costruzione formale, con sequenze, timbri stratificati, dialoghi serrati fra tastiere e chitarra. L’effetto è quello di un mosaico contemporaneo, affine alla pittura di Gerhard Richter, in cui l’astrazione convive con echi figurativi, producendo un impasto di memoria e modernità. The Elektric Band rappresenta davvero un altro stadio evolutivo della dimensione elettrica. Le armonie, pur radicate in nuclei modali, vengono organizzate in sequenze complesse, con modulazioni brusche e sovrapposizioni sintetiche che costruiscono un vero mosaico timbrico. A differenza di Romantic Warrior , l’opulenza sonora non risulta monumentale bensì più brillante e frammentata, riflettendo la velocità e la molteplicità della contemporaneità elettronica. Ritmicamente, l’album si distingue per un’irruenza quasi digitale: la scansione è precisa, talvolta implacabile, con figure sincopate che si intrecciano come in una partitura minimalista, ma animate da un’energia funk che impedisce ogni staticità. Osservando in prospettiva l’intero percorso, si percepisce come Corea sia riuscito a mantenere costante quella sorta di «anticonformismo», non inteso come gesto di rottura sterile, bensì come predisposizione a non accettare nessuna forma come definitiva, a considerare ogni configurazione sonora come provvisoria e aperta a ulteriori metamorfosi. Tale attitudine, nutrita da un inesauribile senso ludico e da una profonda spiritualità, ha consegnato alla storia del jazz una figura che non si lascia agevolmente incasellare, poiché in lui convivono simultaneamente l’architetto sonoro, l’improvvisatore visionario, il didatta appassionato e l’instancabile esploratore di mondi musicali possibili.

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