Editoriale Il 24 gennaio 1975 rappresenta una data fatidica per tutti coloro che amano la grande musica. Quel giorno, a Colonia, si svolse quello che viene considerato l’evento clou della storia della musica dal vivo, quando Keith Jarrett si sedette davanti a un Bösendorfer mezzacoda, uno strumento con evidenti problemi tecnici, dando però vita a un vero e proprio “rito sacrale”, qualcosa che è rimasto indelebilmente nella memoria di coloro che vi assistettero e di quelli, milioni in tutto il mondo, che ne acquistarono dapprima il vinile e poi il CD, pubblicato dalla ECM Records. Così, a cinquant’anni di distanza, abbiamo voluto ricordare quel mitico concerto attraverso il contributo “controcorrente”, a bocce ferme, di Francesco Cataldo Verrina e alla sua storia grazie a un articolo di Enrico Merlin...
STORIE | MUSICA | ASCOLTI | HI-FI
Keith Jarrett un concerto, un mito
Roberto Loreggian Il clavicembalo come un’orchestra Eugenio Finardi Un cantante di fronte al microfono Steve Lacy Radiografia di un genio Giovanni Pierluigi da Palestrina Il padre di ogni musica
Phono Quality Audio Supermotor Level Arkangel DAC Bartolomeo Aloia, l’Archimede dell’Hi-Fi
Birdbox Records – “SAMPLER 2025” – in questo numero l’album digitale > download gratuito
GrooveBack magazine
Sono cresciuto assieme al pianoforte, ne ho imparato il linguaggio mentre cominciavo a parlare”
Keith Jarrett
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Hanno collaborato a questo numero: Giovanni Acciai, Pippo Basile, Andrea Bedetti, Michele Benignetti, Francesco Cataldo Verrina, Alfredo Di Pietro, Edmondo Filippini, Riccardo Mainardi, Noemi Manzoni, Enrico Merlin, Gianluca Sfriso, Sandro Vero.
Editoriale
di Andrea Bedetti
Il 24 gennaio 1975 rappresenta una data fatidica per tutti coloro che amano la grande musica. Quel giorno, a Colonia, si svolse quello che viene considerato l’evento clou della storia della musica dal vivo, quando Keith Jarrett si sedette davanti a un Bösendorfer mezzacoda, uno strumento con evidenti problemi tecnici, dando però vita a un vero e proprio “rito sacrale”, qualcosa che è rimasto indelebilmente nella memoria di coloro che vi assistettero e di quelli, milioni in tutto il mondo, che ne acquistarono dapprima il vinile e poi il CD, pubblicato dalla ECM Records. Così, a cinquant’anni di distanza, abbiamo voluto ricordare quel mitico concerto attraverso il contributo “controcorrente”, a bocce ferme, di Francesco Cataldo Verrina e alla sua storia grazie a un articolo di Enrico Merlin. A proposito di etichette discografiche, in questo numero avrete la possibilità di scaricare gratuitamente un sampler con tracce di una label votata alla più pura espressione audiofila, la romana Birdbox Records, della quale abbiamo intervistato anche il suo patron Lorenzo Vella. E se gli appassionati di classica potranno leggere con piacere e interesse gli articoli di Giovanni Acciai e di Edmondo Filippini, dedicati rispettivamente a Giovanni Pierluigi da Palestrina e al compositore giapponese Kōsaku Yamada, i cultori del jazz apprezzeranno il lungo contributo scritto da Francesco Cataldo Verrina su Steve Lacy. Un’altra intervista, curata da Gianluca Sfriso, è stata fatta a un vero e proprio gigante della tastiera filologica, Roberto Loreggian, del quale ho anche recensito il suo cofanetto di CD dedicati all’integrale per tastiera del sommo Girolamo Frescobaldi. Sempre per ciò che riguarda le recensioni CD, da questo numero il pianista Michele Benignetti inizia a collaborare con noi parlandoci di un disco dedicato ad alcune trascrizioni pianistiche di Bach. Poi, Riccardo Mainardi ci svela delle registrazioni storiche “alternative” dei principali capolavori teatrali di Giacomo Puccini, mentre Noemi Manzoni parla del rapporto tra musica e letteratura anche grazie alla prima parte di un succoso racconto ottocentesco dedicato al “demoniaco” Niccolò Paganini. Inoltre, Alfredo Di Pietro, per gli aficionados della musica d’autore italiana, ricorda uno dei progetti discografici più importanti di Eugenio Finardi, Il cantante al microfono , dedicato al grande cantautore moscovita Vladimir Vysockij. Lo stesso Di Pietro, e qui entriamo nell’ambito dell’alta fedeltà, ci regala un ritratto di Bartolomeo Aloia, l’“Archimede” dell’Hi-Fi italiana; nella stessa sezione parliamo anche del preamplificatore Phono Quality Audio Supermotor, del Level Arkangel Streamer DAC, oltre a pubblicare una riflessione di Pippo Basile e un articolo introduttivo di Sandro Vero sulla magia del reel to reel .
Buona lettura a tutti!
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Sommario
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Editoriale 10 Il nostro CD: la Birdbox Records
Streaming e download di musica in alta qualità
18 Ma il vero Keith Jarrett fu quello del The Köln Concert? 26 Il Köln Concert, una “leggenda” sbocciata nelle avversità 30 Giovanni Pierluigi da Palestrina, il padre della musica d’ogni tempo 38 Yamada Kōsaku, colui che fece conoscere la musica classica in Giappone 44 Consigli di lettura 50 Roberto Loreggian, colui che trasforma il cembalo in un’orchestra 54 Girolamo Frescobaldi, il “faro musicale” di Roberto Loreggian 56 Steve Lacy, radiografia di un genio non sempre compreso 64 Puccini: una discografia alternativa 70 Lorenzo Vella, quando il sogno sonoro di un bambino diventa realtà
76 Alexander Tharaud riconsegna Bach allo spirito 80 Il Mahler della Seconda e della Quarta Sinfonia 86 Eugenio Finardi veste i panni di Vladimir Vysotskij 92 Bach, il clavicembalo e i periodi di Köthen e Lipsia 96 Il preamplificatore phono Supermotor 102 Game over (?) Il gioco dell’Hi-Fi avrà mai fine? 110 Con un “arcangelo” alla scoperta del digitale 114 Il reel to reel: le meraviglie di una riproduzione 120 Bartolomeo Aloia, l’“Archimede” dell’Hi-Fi italiano 126 Nell’antro magico di Debussy
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Le dodici tracce del sampler offerto in questo numero ai nostri lettori permettono di fare la conoscenza con questa label indipendente e del suo studio di registrazione, il Nightingale Studios, situato nei pressi di Roma, nati grazie alla passione visionaria e alla competenza di Lorenzo Vella, il quale crede in un’unica missione, quella di restituire la musica all’ascolto grazie a una filosofia squisitamente analogica. Il nostro CD: alla scoperta di una casa discografica audiofila, la Birdbox Records di Andrea Bedetti Il sampler messo a disposizione dei nostri lettori in questo numero è anche l’occasione per scoprire e conoscere meglio un’etichetta indipendente italiana, la Birdbox Records, che è nata da un’idea (ma sarebbe meglio scrivere da un sogno… ) di Lorenzo Vella (del quale si può leggere, in questo stesso numero, la sua intervista), un imprenditore tenace e visionario che con la sua label ha una missione ben precisa, quella di riportare la musica al massimo godimento di ascolto attraverso la creazione e la stampa di dischi in vinile in nome della più pura audiofilia. Così, in un’epoca dominata dalla freddezza digitale, Birdbox Records ha deciso di andare risolutamente controcorrente esaltando esclusivamente la dimensione analogica che prende avvio già in fase di presa del suono con sofisticati registratori a nastro capaci di catturare l’anima della musica, perfino preservandone le imperfezioni che la rendono unica e autentica. In questo
parte di sei distinti album che appartengono al catalogo della casa discografica di Palombara Sabina, in provincia di Roma. Il primo gruppo di brani sono tratti dall’album 10/5 di Alessandro Bianchini, un vibrafonista e virtuoso della marimba, che vede la collaborazione di Simone Brilli alla batteria e di Marco Micheli al contrabbasso, con la presenza della voce di Beatrice Sberna per una traccia. Questo lavoro è un tipico crossover , il risultato di una contaminazione tra generi e stili diversi, che riflette la formazione musicale del trentino Alessandro Bianchini, un musicista che proviene dalla musica classica, che lo ha visto collaborare con alcune prestigiose compagini orchestrali per poi approdare a una visione squisitamente jazz. Da qui, una ricerca formale e contenutistica del suono che si riflette nella dinamica, a dir poco maniacale, con la quale sono impregnati tutti i brani del disco. Inoltre, come ricorda lo stesso Bianchini, di fondamentale importanza è stata la scelta timbrica delle bacchette che sono state scelte a seconda del brano, con l’idea di mettere insieme vibrafono e marimba, in modo da conferire un sound rigorosamente jazz. Così, i primi due brani della tracklist presentano proprio altrettanti pezzi di 10/5 , ossia Invitation e Bud Powell , due classici del jazz americano riarrangiati ad hoc da Bianchini, mentre gli altri cinque brani del suo disco sono farina del sacco dello stesso artista trentino. Invitation è una canzone di Bronisław Kaper, con testo di Paul Francis Webster, originariamente apparsa nel film L’indossatrice di George Cukor. La scelta di arrangiare questo celebre pezzo è nato dal desiderio di includere elementi ritmici e timbrici di un caposaldo del repertorio bop risalente all’inizio degli anni Cinquanta. Così, l’arrangiamento proposto da Bianchini incoraggia l’esplorazione musicale e conferisce spontaneità all’improvvisazione e all’interazione tra i musicisti del trio. Bud Powell è un classico di Chick Corea pubblicato in un album interamente dedicato al grande pianista scomparso prematuramente, intitolato Remember Bud Powell , e appartiene al tipico linguaggio bebop .
I due brani che seguono nel sampler sono quelli che appartengono all’album Anamorfosi di Umberto Fiorentino & Claudio Quartarone, esattamente Out of Nowhere e In a Sentimental Mood . Come si evince dalle note di presentazione, questo disco è stato “catturato nell’anima calda dell’analogico e preservato nella nitidezza del digitale. Questo album è un viaggio sensoriale unico, dove l’autenticità del suono analogico incontra la precisione della registrazione a 192 kHz/24 bit grazie al convertitore Metric Halo ULN8 3D. Il tocco finale, interamente analogico, con una suite
modo, ogni sfumatura, ogni respiro, ogni vibrazione vengono immortalati su nastro e restituiti mediante la magia del vinile, i cui solchi vengono riempiti con le preziose informazioni sonore, tutte dedicate a un raffinato e coinvolgente jazz. Per avere un’idea della qualità e della “filosofia” di questa etichetta discografica, il cui studio di registrazione, il Nightingale Studios, è anche a disposizione di altri artisti desiderosi di ottenere un suono riprodotto il più “puro” e “autentico” possibile, proponiamo dunque in questo numero questo sampler che contiene una tracklist con dodici tracce che fanno
di outboard a valvole d’eccellenza, dona a questo disco una profondità e un’emozione senza pari”. Per ciò che riguarda gli strumenti, il romano Umberto Fiorentino ha
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utilizzato una chitarra costruita da Leonardo Manni, modello “Trevi”, mentre il catanese Claudio Quartarone ha usato una chitarra elettrica e una chitarra classica di Domenico Spada. Jazz caldo, rotondo, ricco di sfumature evocate dalle chitarre, atmosfere soffuse che si sprigionano da linee melodiche sempre ricche di inventiva e di soluzioni tecniche, da apprezzare con luci soffuse e un sorso di raffinato distillato.
Uno dei dischi più rappresentativi inseriti in questo sampler è sicuramente Happy Run , il nuovo e primo album italiano di Sasha Mashin, che vede la partecipazione di due artisti di primissimo ordine, il sassofonista Rosario Giuliani e il contrabbassista Makar Novikov. La storia di questo batterista russo è particolare e merita di essere raccontata. Mashin ha scelto l’Italia e Roma come luogo di residenza negli ultimi due anni dopo l’inizio del conflitto che ha coinvolto il suo Paese. In precedenza, Mashin ha vissuto a Mosca, dove ha svolto un ruolo di primo piano nella scena culturale e musicale della capitale russa, in cui era impegnato in
particolare da due attività, ossia il cosiddetto Sasha Mashin Happy Lab , che si svolgeva una volta alla settimana nel principale jazz club di Mosca, e il Sasha Mashin Happy Run , dove si incontrava con gli amici per correre dieci chilometri e chiacchierare una volta alla settimana. L’idea di base del laboratorio musicale era quella di abbattere la barriera che inevitabilmente separa il pubblico dal palcoscenico, in modo da promuovere una comunicazione più informale nel corso dei concerti tramite un proficuo scambio di idee. In breve tempo, il laboratorio era diventato un appuntamento fisso per ascoltare ottima musica e un luogo di incontro per creativi che volevano condividere idee e avviare nuovi progetti. Allo stesso modo, anche il Sasha Mashin Happy Run era diventato un popolare evento sportivo amatoriale, che vedeva coinvolti molti degli
stessi partecipanti del Sasha Mashin Happy Lab . Le regole erano semplici: si correva per imparare tutto ciò che si voleva, non solo dal creatore dell’evento, ossia Mashin stesso, ma anche da tutti i musicisti o le persone impegnate nella corsa, i quali provenivano da diversi contesti professionali. Ma lo scoppio della guerra ha stravolto tutto ciò, non solo per ciò che riguardava le due manifestazioni ma anche, e soprattutto, nella vita dei singoli. Così, Sasha Mashin ha deciso di lasciare la Russia ed è arrivato in Italia come rifugiato politico, trovando nuovi amici, nuovi musicisti eccezionali che lo hanno accolto sia come persona sia come
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artista, al punto che oggi il batterista russo sente di poter chiamare Roma la sua “casa” e i suoi nuovi e vecchi amici “la sua famiglia”. Non per nulla, nelle note di accompagnamento a Happy Run , Sasha Mashin ha scritto testualmente: «Ho la sensazione di aver finalmente terminato la mia corsa. Per la prima volta dopo tanto tempo mi sento veramente felice. Mentre un tempo l’idea di emigrare mi riempiva di terrore esistenziale, non mi sembra nemmeno di essermi allontanato da casa. Gli italiani sono così aperti, amichevoli e solidali che mi sembra di aver completato una maratona e di aver raggiunto il traguardo. Sono a casa». In questo disco spiccano due pezzi, entrambi presenti in questo sampler , vale a dire Yellow Blues di Makar Novikov e la coinvolgente Suite et Poursuite in tre parti di Rosario Giuliani. Se il primo brano mette in evidenza le capacità tecniche e musicali di Makar Novikov, protagonista di un assolo di assoluto rilievo, sollecitato dal ritmo incalzante di Misha Mashin e dall’approfondimento al sax di Rosario Giuliani, Suite et Poursuite , con i suoi quindici minuti di durata, si plasma su sonorità sempre cangianti tramite un costrutto che vede la totale partecipazione dei tre strumenti, una sorta di reciproca solidarietà con la quale serrare le fila, un inno che non è soltanto un incitamento alla resistenza musicale, ma anche storica ed esistenziale, quasi un “manifesto” di ciò che Mashin spiega ancora nelle note di accompagnamento al disco: «Una delle esperienze più belle legate alla corsa è la capacità di pensare e pianificare mentre si corre. In questi momenti, la chimica del cervello cambia in modo significativo, producendo più serotonina e dopamina, e si può pensare in modo più chiaro e preciso. Correndo regolarmente ho capito una cosa importante: non si può fuggire da se stessi. Ma si può fuggire dall’oscurità, sia dentro che fuori di noi. La corsa è uno sport intelligente. Correte felici!». Dopo averli conosciuti con il loro primo album, Anamorfosi , torna il due chitarristico formato da Umberto Fiorentino & Claudio Quartarone con un nuovo lavoro, intitolato II , del quale il sampler ospita due delle otto tracce che lo compongono, Morning Glory ed Eastwood Bung . A differenza di Anamorfosi , in questo loro nuovo disco i due chitarristi virano maggiormente sul genere blues per esplorarlo e circoscriverlo in modo assai
Il sassofonista Cristiano Giardini è il protagonista di un’altra produzione della Birdbox Records, Odisseya , che vede coinvolti anche Paolo Recchia al sax contralto, Luca Mannutza al pianoforte, Kim Baiunco al contrabbasso e lo stesso Sasha Mashin alla batteria. Giardini ha voluto spiegare che cosa si è proposto con quest’album, di cui il sampler ospita due brani, Il Ciclope e Il Sogno . «Il viaggio di Ulisse è solo un esempio di quello che potrebbe essere il viaggio di ognuno di noi, Odisseya è il mio» ha detto il sassofonista siciliano, facendo intendere come questo disco rappresenti fondamentalmente un concept album jazz ispirato al viaggio come avventura interiore e crescita personale. Registrato in presa diretta senza alterazioni di editing in fase di post produzione, Odisseya nasce dalla storia di luoghi cari allo stesso Giardini, vale a dire Acitrezza e i faraglioni, o Isole dei Ciclopi, legati all’ Odissea di Omero. Sulle orme mitiche di questi posti, Giardini ha così intrapreso il proprio viaggio combinando elementi di jazz e di musica sperimentale. Il primo dei due brani, Il Ciclope , è un esempio di come un brano venga esaltato da un’incredibile velocità di esecuzione, ma è anche il pezzo-cardine dell’album, visto che indubbiamente ha il richiamo più forte nella storia di Ulisse e che racchiude in sé il legame con la terra di origine di Giardini, Acitrezza, luogo mitologico dello scontro tra lo stesso eroe omerico e il Ciclope. Il brano ha una struttura armonica intricata che richiede grande abilità tecnica e musicale per essere eseguita correttamente, soprattutto a velocità elevate, visto che a livello compositivo il sassofonista siciliano ha messo scherzosamente alla prova gli altri musicisti non solo dal punto di vista tecnico, ma anche per la loro capacità di interpretazione e creatività.
Così, il risultato è stato a dir poco sorprendente e, allo stesso tempo, scontato, in quanto Giardini era pienamente consapevole delle doti di ognuno di loro e per l’amalgama creata dal quintetto. Ma se Il Ciclope colpisce per la sua estrema vitalità, al contrario Il Sogno (traccia presente non nel vinile, ma nel formato di musica liquida Master Studio 88.2khz/32bit) rappresenta un profondo atto di meditazione timbrica, una riflessione al rallentatore, in cui si sprigiona tutto il fascino del sax dell’artista siciliano, cullato dal soffuso incedere del pianoforte e della batteria. Le ultime due tracce del sampler offerto ai nostri lettori riguardano l’album TO GIANTS , frutto di un trio formato da Antonio Simone al pianoforte e al
originale e visionario attraverso l’apporto della chitarra semiacustica e della chitarra classica. Come si potrà ascoltare in Morning Glory , il risultato di questa esplorazione porta il duo a produrre due linee melodiche capaci di fondersi idealmente, al punto che in fase di ascolto sembra di sentire il risultato timbrico di un’unica chitarra. Al contrario, in Eastwood Bung vi è un maggior apporto del dato ritmico, ma sempre veicolato attraverso una scrittura in cui la materia melodica prende il sopravvento in un continuo dipanarsi, dando vita a caleidoscopiche forme sonore.
synthesizer , Angelo Verbena al contrabbasso e da Marcello Spallucci alla batteria e tar . Si tratta di un lavoro nel quale il pianista foggiano ha dato vita ad omaggi/trascrizioni dedicati a diversi pianisti-compositori jazz, i quali sono stati altrettanti pionieri dei diversi stili che hanno caratterizzato l’evoluzione di questo genere in chiave pianistica. Colpisce, però, la presenza di un brano come Naima , presente anche nel sampler , scritto non da un pianista ma da quel gigante del sax che è stato John Coltrane, a dir poco imprescindibile nel passaggio dal periodo bop a quello del free jazz. L’altro brano, Giants’ Melodies , riflette la linea guida di questo omaggio, vale a dire la possibilità di ascoltare pezzi dal più caratteristico sound mainstream a quelli con rivisitazione di
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LEOPOLD STOKOWSKI THE WAGNER SOUND
alcuni temi in una versione più originale e riletti con un sound new jazz , come accade per l’appunto in questa traccia che, nella sua unione, omaggia due brani di altrettanti “giganti” quali Un poco Loco di Bud Powell ed Evidence di Thelonious Monk.
Per scaricare gratuitamente l’album Birdbox Records “SAMPLER 2025”
vai sul sito di REFERENCE MUSIC STORE (referencemusicstore.it) e dopo esserti registrato, vai nella home page, aggiungilo al carrello e procedi con check-out; aggiungi nel campo “Codice sconto” il tuo codice personale: GBM04BBRS25HD
E d i z i o n e d i g i t a l e i n t e r a t t i v a | D I S T R I B U Z I O N E G R A T U I T A
Composed By – Richard Wagner Conductor – Leopold Stokowski Engineer – Lewis Layton Orchestra – Symphony Of The Air And Chorus* Producer – Peter Dellheim Sleeve Notes – Charles O'Connell
Leopold Stokowski conferì all’orchestra un suono completamente nuovo, noto al grande pubblico come il “Philadelphia Sound” o “Stokowski Sound”, un tono lussureggiante e una rigorosa attenzione al colore. Fu un pioniere nell’uso dell’archetto “libero”, in quanto questa pratica contribuiva a creare un suono più ricco e omogeneo, eliminando le piccole discontinuità che possono derivare da cambi d’arco simultanei. Il risultato era un timbro degli archi più fluido, continuo e avvolgente. Prossimamente su GRooVE back Records, il primo LP della nuova collana Capsa Symphōnīa dedicata ai Grandi Interpreti della Musica Classica.
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CLASSICAL RECORDS
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A mezzo secolo di distanza, Francesco Cataldo Verrina riconsidera, a bocce ferme, quello che è considerato come il più famoso concerto dal vivo della storia del jazz, soprattutto alla luce di altre live performances dell’artista di Allentown che invece non hanno avuto altrettanta notorietà. Ma il vero Keith Jarrett fu quello del The Köln Concert?
a disposizione sul palco almeno un Bösendorfer 290 Imperial, ma si trovò sottò gli occhi un malconcio piano della stessa marca, per giunta molto più piccolo, con una coda di sette piedi, non revisionato e poco accordato, tanto che il pianista avrebbe usato in massima parte i tasti centrali dello strumento. Arrivato sul luogo la sera prima - come raccontano le cronache - la reazione iniziale di Jarrett fu quella di non voler suonare, ma il giorno seguente giunse a più miti consigli, accettando il compromesso. Il pianista lo fece, però, controvoglia e con l’aria strafottente - conosciamo tutti il suo carattere - per la serie: «Devo esibirmi, mi pagate, allora, suonerò quello che mi passa per la testa». La vera genialità, l’autentico capolavoro di Jarrett va ricercato soprattutto in «quello che mi passa per la testa». Si potrebbero cercare un’infinità di metafore, ma quella situazione imbarazzante e di disastro annunciato riuscì a trasformare «il brutto anatroccolo in un bellissimo cigno», invertendo la direzione di una sorte inizialmente avversa. Ma adesso, dopo cinquant’anni, al netto degli entusiasmi celebrativi, ragionando a bocce ferme, possiamo tranquillamente affermare, senza tema di smentita, che Keith Jarrett non fece nulla di diverso rispetto a quanto avrebbe fatto, forse in condizioni ottimali, e che già faceva da anni, ossia essere un campione olimpionico, il vessillifero del pianismo jazz improvvisato, dove l’improvvisazione diventava parte del tema se non l’asse portante dell’impianto tematico ed esecutivo. La caratteristica preminente dello stile jarrettiano è sempre stata la cosiddetta «composizione istantanea» che, quando praticata, il musicista deve essere in grado di formulare un’idea musicale dopo l’altra e riprodurla immediatamente sullo strumento, mentre ne sta eseguendo un’altra. L’esecutore dev’essere capace di concepire le frasi musicali in tempo reale ed essere tecnicamente all’altezza di suonarle senza cozzare troppo con il sistema armonico, evitando, così, che la struttura tematica appaia disgregata ed incongrua. Ad esempio, quando si tenta un paragone fra Chick Corea e Keith Jarrett, fior di musicologi ci avvertono che Chick è stato il maestro dell’arte scritta e regolamentata, arricchita da un tipo di improvvisazione razionale, secondo l’assioma condiviso da tutta una scuola di jazzisti, secondo i quali «l’improvvisazione non si può improvvisare»; per contro Keith è stato sempre un attore istintivo sulla scena, capace di composizione in tempo reale e di un’improvvisazione quasi per contagio. Il concerto di Colonia fu completamente improvvisato senza schemi prefissati, frutto del libero fluire dei pensieri e delle idee melodiche di Jarrett, miste a una punta di rabbia e di disapprovazione per le condizioni ambientali, le quali divennero il vero carburante della serata. Pensando di fare un dispetto agli inospitali ed approssimativi tedeschi, il pianista di Allentown, che dal 1973 andava ramingo per le lande germaniche proponendosi in vari formati e situazioni, trovò il suo passaporto per le stelle. Non è che l’improvvisazione l’avesse inventata Jarrett in quell’occasione. Magari, a molti profani potrebbe essere sembrato così. Pensate che già nel 1639, durante il periodo barocco, c’era qualcuno che a proposito di Girolamo Frescobaldi, organista e clavicembalista, scriveva: «Per poter giudicare del suo profondo sapere bisogna sentire le sue toccate improvvisate, piene di finezze e di scoperte meravigliose». Tutto ciò vale anche per Jarrett e per i veri improvvisatori che, nel corso dei secoli, si sono distinti per tale peculiarità. In riferimento al The Köln Concert , probabilmente solo un altro grande del jazz moderno sarebbe stato in grado di uscire dalle sabbie mobili di una situazione avversa e improbabile, ossia Charlie
di Francesco Cataldo Verrina
Sono passati cinquant’anni da The Köln Concert di Keith Jarrett. Quando il pianista in solitaria fissò la sua performance su nastro era il 24 gennaio 1975, mentre il doppio album venne dato alle stampe dall’ECM il 30 novembre dello stesso anno. Milioni di copie vendute su vari supporti nell’arco di dieci lustri, fanno del concerto jarrettiano uno dei dischi commercialmente più rilevanti della storia della musica del Novecento con numeri che, in precedenza, salvo qualche rara eccezione, erano appartenuti solo all’effimero universo del pop. The Köln Concert , specie nell’edizione in vinile, ha finito per diventare un must e un punto di riferimento per gli audiofili grazie alla sua indiscutibile qualità sonora. Si faccia attenzione, però, a non utilizzare con leggerezza
Keith Jarrett © Roberto Masotti (ECM Records).
il termine “capolavoro”, a meno che non si voglia far confusione fra quantità e qualità. Questo perché The Köln Concert , considerando le condizioni disastrose in cui venne registrato, fu davvero un capolavoro d’inventiva e di disperazione che contempla pienamente il motto latino: ad astra per aspera . Per intenderci, si possono raggiungere le stelle solo attraverso le difficoltà e le asperità, e quel giorno Jarrett ne incontrò più di una. Un’indigestione la sera precedente con relativa notte insonne, una pessima organizzazione, un management dilettantistico e soprattutto un vecchio pianoforte mezzo stonato e con un pedale fuori uso. Non potendo contare su un pianoforte a coda Steinway & Sons, Jarrett si aspettava di avere
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Parker, il quale lo fece più volte, magari senza i risvolti commerciali di Jarrett. Erano, però, altri tempi. C’è un episodio della vita artistica e concertistica di Bird non dissimile all’avventura di Jarrett all’Opera House di Colonia: il famoso concerto di Charlie Parker alla Massey Hall di Toronto del 1953 che, tenutosi in una situazione di caos organizzativo, finì per diventare, discograficamente, uno dei momenti più acclamati della carriera del sassofonista. In occasione del The Köln Concert , di cui alcune parti dal punto di vista musicologico risultano alquanto discutibili, Jarrett non fece nulla di trascendentale, se non usare una tecnica a lui congeniale, ossia la suddetta «composizione istantanea» e lo fece con estrema furbizia, senza neppure rischiare molto. Come abbiamo già acclarato, il suo fu più un atto dimostrativo, una sorta di sfregio, almeno nelle intenzioni iniziali e senza neppure la totale consapevolezza di cosa stesse realmente facendo. Tutto il concerto era finalizzato a coprire un dato tempo di esecuzione come pattuito dal contratto e dal relativo compenso. Ironia della sorte fu che qualcuno ebbe la brillante idea di registrare la performance con apparecchiature professionali che in Germania, al tempo, erano più evolute che in altre parti del mondo, USA compresi. Un aspetto rilevante del concerto riguarda l’elevato numero di improvvisazioni eseguite su una vamp , per intenderci un ostinato di uno o due accordi (al massimo) per periodi piuttosto estesi. Nella parte chiamata I, il pianista si lancia in ben dodici minuti di improvvisazione, utilizzando tecnicamente due soli accordi: la minore di settima e sol maggiore; negli ultimi sei minuti, invece, fissa il tema su un unico accordo, quello del la maggiore. Nella parte IIA, gli
questo disco riproduce la stessa atmosfera di un concerto da camera per pianoforte, senza ovviamente le regole della musica classica, soprattutto senza l’anima nera del jazz e i suoi elementi di rottura musicale: il free jazz , specie in Europa, in quegli anni, era ancora in piena deflagrazione. Come già ampiamente narrato, il fulcro dell’evento è rappresentato dall’atto estremo di un musicista disperato. Alcuni attenti studiosi e musicologi di fama hanno intercettato, in questa lunga maratona improvvisata, frammenti e citazioni di tutto lo scibile sonoro: dalla musica classica all’operetta, dalla canzonetta popolare al folklore celtico, dal blues allo swing e al soul, ma soprattutto furono rilevate notevoli incongruenze tecniche, per cui molte parti dell’opera non sarebbero trascrivibili. Il successo del The Köln Concert fu talmente inaspettato, inatteso e planetario che Keith Jarrett seppe cavalcare l’onda, divenendo il templare dell’improvvisazione in piano solo, anche tecnicamente incongrua e basata sull’intuito e sull’istinto della composizione istantanea e in tempo reale. Le sue parole risultano alquanto eloquenti: «Non possiedo nemmeno un seme quando comincio a suonare. È come partire da zero. Il jazz è lasciare che la luce brilli. Non cercare di accrescerla, ma lasciarla essere [...]. Quando sono sul palco e c’è solo un pianoforte, è come se il corpo sapesse esattamente cosa deve fare perché, se dico alle mani cosa suonare, impedisco loro di eseguire qualcosa di meglio di ciò che sto pensando».
Non tutti i concerti di Jarrett ebbero la fortuna di quello di Colonia
In un’intervista rilasciata a Stuart Nicholson nel 2009, Jarrett spiegò la genesi di The Survivors’ Suite , album realizzato con il cosiddetto “quartetto americano”, formato, oltre che da Jarrett, da Dewey Rodman, Charlie Haden e Paul Motian: «Tutta la musica fu scritta appositamente per l’Avery Fisher Hall di New York, perché sapevo che avremmo suonato lì, di fronte a Monk. Infatti, il quartetto si esibì in quella sede il 3 luglio 1975 in un cartellone condiviso con gli Oregon e il quartetto di Thelonious Monk. Sapevo che suonando all’Avery Fisher Hall il suono sul palco sarebbe stato dispersivo e non adatto ai tempi veloci, così decisi di scrivere qualcosa di più adatto per quella serata e a quel tipo di acustica. C’era una logica in tutto questo, ma se dovessero dirmi: lei, signor Jarrett, concepirebbe davvero l’idea di scrivere un tipo di musica per una specifica sala da concerto? Probabilmente risponderei: no! Ma la risposta sta nel fatto che sapevo che la sala era molto scarsa per certi tipi di performance e se ascoltate attentamente The Survivors’ Suite , noterete che non ci sono tempi veloci» . Un mese dopo, il gruppo registrò un altro album per la ECM, ma questa volta fu un’esperienza completamente diversa, caratterizzata dal ritardo di Dewey Redman. Il sassofonista, spesso in preda ai fumi dell’alcool, arrivava sempre in ritardo alle prove, e lo fece anche durante quella registrazione dal vivo. Jarrett raccontò di una serata piena di colpi di scena: «La lunga introduzione di pianoforte su Eyes Of The Heart non doveva esserci. Ho dovuto continuare a suonare perché uno dei ragazzi non era sul palco quando avrebbe dovuto». Tutto ciò a dimostrazione della genialità del pianista che era in grado di comporre in tempo reale in relazione all’ambiente, alla situazione e alle circostanze. Eyes Of The Heart , pur interessante nella sua complessità sonora, è il frutto non solo di tensioni musicali, ma anche di tensioni personali tra i membri del gruppo, il
ultimi otto minuti si concentrano sul re maggiore, mentre nella parte IIB, durante i primi sei minuti, Jarrett improvvisa sul fa diesis minore. A tratti il suo modus operandi è più tranquillo, a volte pesca nel blues o nel gospel, altre ancora attinge a qualche reminiscenza “eurodotta” o al folklore popolare ma, a conti fatti, non si prende molti rischi, come invece faceva Charlie Parker. In buona sostanza, qualcuno potrebbe chiedersi: che cos’è realmente il concerto di Colonia di Keith Jarrett: un capolavoro o sottofondo termale stile new age ? Forse come sospinto da una forza sovrannaturale, il pianista creò quella che è stata la più grande improvvisazione assoluta della storia del jazz (con un solo uomo al comando), o di un qualcosa che musicalmente al jazz potesse somigliare. Lo sviluppo creativo ed espressivo fu notevole ma, estrapolato dal contesto,
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cui affiatamento era andato progressivamente peggiorando a partire dai loro ultimi tre album, e secondo alcuni, iniziando ad avere un impatto negativo sulla musica. In verità, l’album presenta alcune anomalie, come il fatto di essere originariamente pubblicato come un set di due LP con sole tre facciate incise e una completamente vuota. È probabile che buona parte del materiale registrato non fosse stata ritenuta tecnicamente all’altezza per poter completare il quarto lato. Si consideri che il tempo complessivo della musica sulle tre facciate è di soli quarantuno minuti, inferiore alla durata minima di qualsiasi concerto. Questo lasciò intuire che una parte fosse stata scartata dalla ECM, che non la riteneva qualitativamente adatta al proprio standard sonoro. Soprattutto si preferì spalmare i tre lunghi brani su tre facciate per garantire una migliore fedeltà d’ascolto. Con l’arrivo del CD la faccenda passò in cavalleria. Pubblicato nel 1979, Eyes Of The Heart fu registrato dal vivo nel maggio del 1976 a Bregenz in Austria, presso il Theater am Kornmarkt, nel classico line-up americano con Keith Jarrett (che oltre al piano suona anche il sax soprano), Dewey Redman al sax tenore, il bassista Charlie Haden e il batterista Paul Motian. L’attività del quartetto americano è al rush finale: aveva da poco registrato The Survivors’ Suite , praticamente un mese prima e in ottobre sarebbe tornato in studio un’ultima volta per gli album Byablue e Bop-Be . Che quel giorno in Austria ci fossero dei dissapori e delle frizioni fra i vari componenti del gruppo è dimostrato dal fatto che Dewey Redman arrivò solo ai due terzi della seconda traccia. La storia ufficiale, raccontata da Jarrett in una sua biografia, è che il sassofonista stesse bevendo vino fuori dal palco e che fosse visibilmente alterato. Prima che Dewey Redman entrasse in scena, Jarrett dilatò i tempi, suonando il piano quasi da solista, mentre lo svolgimento apparve più ripetitivo e meno interessante perfino rispetto ai noti concerti in solitaria di quel periodo, soprattutto con il musicista di Allentown che cercò di compensare con un lungo assolo di soprano nella parte iniziale. L’assenza di Redman, con il suo melodismo oscuro e burbero, rese più asfittico lo stile di Jarrett solitamente più lirico e scorrevole. Nei primi venticinque minuti, nonostante lo sforzo del leader , perfino Motian e Haden sembrarono vacillare, risultando un po’ letargici. Con l’ingresso di Redman, a circa dieci minuti dall’inizio della seconda traccia, la musica decollò notevolmente. Il movimento dilatorio, che Jarrett aveva sviluppato in precedenza, s’infittì di colpo intensificandosi, mentre Haden e Motian si svegliarono improvvisamente. Redman si produsse in un assolo ruvido e intenso. Encore della durata di diciotto minuti, il momento migliore e più completo dell’album, collocato sulla terza facciata (quella orfana), iniziò con le movenze di un calypso e il sassofonista accennò brevemente a qualcosa che richiama St. Thomas di Rollins, seguito da un breve assolo di batteria da parte di Motian, quindi Jarrett con il soprano creò una breve atmosfera alla Ornette, incalzato ancora dal tenore di Redman, infine un’improvvisazione per pianoforte di Jarrett. Gli intoppi iniziali non tolgono molto al valore complessivo dell’album, ogni registrazione di questa formazione (probabilmente il miglior team di lavoro di Jarrett) merita una prova d’appello: il suono è sempre ben caratterizzato, mai prevedibile e ricco d’inventiva. Nel complesso, questo è uno dei dischi più gracili del quartetto americano, se confrontato con il robusto Fort Yawuh , registrato tre anni prima al Village Vanguard,
quando l’ensemble era al top della vigoria creativa ed esecutiva. Ciononostante, in Eyes Of The Heart ci sono molti lampi di genio, sia pure occasionali, tanto che per gran parte del concerto non si capisce se, oltre a Jarrett, il resto della band sia sul palco, ma quando compaiono Charlie Haden si mostra ancora al top della forma, Dewey Redman suona con una voce lamentosa e impenna sul registro più alto dello strumento, tanto da richiamare l’idea di Jan Garbarek e Jarrett insieme. Forse un vaticinio involontario. Come già detto, c’era tensione (non solo musicale) tra i membri del gruppo, Redman non compare nella prima traccia, tanto da costringere Jarrett e Haden ad estendere quella che doveva essere una semplice introduzione e a trasformarla in una suite di diciassette minuti, ma quando Redman decide finalmente di unirsi alla ciurma, entra con un tocco preciso, simile a quello di un artista che infligge colpi decisivi di pennello a una tela ancora grezza e indefinita. La tensione sale velocemente e l’improvvisazione di gruppo raggiunge il climax . Questi sei minuti, consegnati alla storia, valgono l’intero prezzo della corsa.
Siamo davvero sicuri che il vero Jarrett sia quello del The Köln Concert?
Con buona probabilità Jarrett trovò la sua quadratura del cerchio, almeno jazzisticamente parlando attraverso la consolidata formula del piano trio. Still Live è una delle riprese sonore dal vivo più riuscite non solo della storia del jazz post- moderno, ma sicuramente uno dei dischi più attrattivi e intriganti della lunga e inquieta attività di Keith Jarrett; si consideri che nell’evoluzione del piano trio post-bop, questo risulta essere uno dei line-up più equilibrati, il triunvirato delle meraviglie, quasi un incastro perfetto, così come lo era stato il cosiddetto “quartetto americano” durante la prima fase della carriera del pianista; si tenga altresì presente che il piano trio costituisce, probabilmente, la dimensione espressiva più adatta all’indole di Keith Jarrett, personaggio eclettico e umorale, non facilmente circoscrivibile. Nonostante egli sia ancora un artista contemporaneo, la storia l’ha più volte celebrato e consegnato agli annali del jazz per le sue memorabili performance in solitaria. A parte il discusso The Köln Concert , il quale contiene - come evidenziato - anche molte parti oscure e poco brillanti, eufemisticamente potremmo dire evasive, nel piano solo Keith Jarrett finisce per essere dispersivo e tracimante, come un torrente che non si contiene e fuoriesce dagli argini, mentre nella configurazione piano trio, oltre a beneficiare di un prezioso sostegno, di un suggerimento, di immancabili scambi e piacevoli cambi di passo, ha la garanzia di una struttura di contenimento, che riesce a incanalare il flusso sonoro in maniera più regolare e comprensibile, anche durante le lunghe digressioni improvvisative. Quando tale supporto, umano e musicale, nonché ampliamento creativo del progetto, giunge da Gary Peacock al basso e Jack DeJohnette alla batteria, allora non è difficile trovare la quadratura del cerchio. In effetti, la perfetta circolarità di Still Live diventa un dono degli dèi alle umane genti. Senza tema di smentita, Still Live si candida a essere un capolavoro del jazz degli anni Ottanta in tutte le sue diramazioni ed accezioni. Il doppio album, registrato dal vivo in digitale il 13 luglio 1986 presso la Philharmonic Hall di Monaco, è il frutto di una tempesta perfetta di suoni che raggiungono l’apogeo nella quiete interiore. Jarrett è guidato da
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una luce divina ed emette una tranquillità coinvolgente, non comune ad altri suoi dischi live , dove appare più inquieto e tormentato, a volte anche più algido e distaccato. Qualche obiettore di coscienza critica potrebbe affermare che questa è l’ennesima “furbata” della ECM, che organizzò un set live di tutto punto, con apparecchiature digitali e all’avanguardia per l’epoca, simulando un concerto, dove vengono trattati soprattutto alcuni gioielli dell’ American Songbook . Come dire: ti piace vincere facile? In realtà, la strategia di marketing che sottende l’iniziativa è arguta, ma sappiamo bene che i dischi rientrano in quella che viene chiamata arte come produzione, sono oggetti materiali e voluttuari, frutto dell’espressione artistica e dell’ingegno umano, ma stampati in serie, quindi devono essere venduti. Un album di musica contemporanea non è un quadro che si ammira e poi si torna a casa con il ricordo. In genere un disco lo si ascolta per radio, sul web, ma poi la strategia di marketing prevede un’operazione successiva, che si concretizza nell’acquisto. Si potrebbe aggiungere che Still Live sia un lavoro commerciale, poiché facile ed immediato, basato su temi e melodie immortali, ma questa non è una deminutio capitis . Soprattutto, la fortuna dell’ECM fu quella di incontrare un genio come Keith Jarrett. Avete mai sentito una versione più bella di Autumn Leaves ? Quella di Miles Davis, forse, ma non provate a cercarne altre di questa finezza, sareste perdenti e delusi. Jarrett è in uno stato di grazia e dai tasti zampilla l’ambrosia degli dèi. Il disco nella sua totalità è di una bellezza accecante, avendo racchiuso e ingabbiato un crogiolo di forti emozioni in uno di quei momenti irripetibili, quando tra i vari musicisti si crea una sorta di perfetto allineamento sinergico, come quello dei pianeti e l’ispirazione viene guidata verso un immaginario altrove da un armonioso incanto.
Bastano le prime note di My Funny Valentine , dove il fruitore è piacevolmente irretito, lasciandosi trasportare quasi sulle ali di una farfalla, mentre ogni singola nota sembra essere millesimata con perizia e cura, fino al sopraggiungere della già citata Autumn Leaves , spennellata con un’alternanza di tinte e trame sonore, dove il piano disegna passaggi che affluiscono come onde avvolgenti, mentre la retroguardia ritmica fornisce una linea guida pulita e lineare. When I Fall In Love usa la profondità delle note come arma di seduzione, la dolcezza e il lirismo del piano di Keith Jarrett, mentre il tappeto ritmico di DeJohnette e Peacock, quasi accennato e spazzolato, avvolge il costrutto sonoro del pianista, quasi a volerlo proteggere da interferenze esterne. Trattandosi di un live , si ha come l’impressione che il pubblico pagante sia come ipnotizzato, mentre The Song Is You viene srotolata sulla lunga distanza di sedici minuti, con estese traiettorie riservate alle fantasiose improvvisazioni di Jarrett, intercettate e sublimate da due sodali con un comping da manuale. In riferimento al set dei due LP in vinile, la terza facciata si apre con Come Rain Or Come Shine , una pioggia di note e un lampo di luce creativa, seguita da Late Lament . È questa la parte più intensa e romantica con schegge di lirismo e pathos perforanti. Descriviamo le sensazioni e non la musica, ma le progressioni armoniche e i cambi di passo del pianista sono frequenti e imprevedibili, senza che la quadratura melodica venga mai disattesa. La quarta facciata è quella più articolata e ricca di variazioni tematiche. La musica torna ad essere più impetuosa e le note si sollevano dal piano come onde del mare. Si comincia con la classica You And The Night And The Music , seguita da Extension , componimento a firma Jarrett, che ben si integra con il concept sonoro del progetto, così come l’intro aggiunto dallo stesso Jarrett a Someday My Prince Will Come , mentre la musica si tuffa nuovamente nell’abisso dei sentimenti, fino all’atto conclusivo, I Remember Clifford , dove la drammatizzazione musicale diventa quasi una messa in scena teatrale. Still Live ha rappresentato nel corso degli anni a venire un modello ispirativo per la classica formula del piano trio proiettato in una più moderna dimensione fatta di cambi veloci, momenti di calma apparente, discese ardite e risalite, dove ritmo, comping , improvvisazione, timing e unità di intenti esprimono una tecnica non comune. Jarrett veleggia come un impavido nocchiero sul suo pianoforte, tenendo ben stretto il timone del comando, mentre i suoi sodali garantiscono che la nave non perda mai la rotta. Il viaggio è lungo, ma l’approdo è sicuro. Analizzando la vasta discografia del pianista, è difficile trovare degli elementi di coerenza tra i vari album, se non per brevi periodi. Spesso ci siamo chiesti da che cosa nascesse questo suo perpetuo mutatis mutandis . Forse, la paura inconscia di ripetersi o di non voler replicare, a prescindere. La sua opera appare alquanto frastagliata e spesso poco catalogabile, in molti casi estranea a quelli che erano le prassi attuative del jazz. Jarrett, nel momento di massima espressività creativa, ha tagliato trasversalmente uno dei momenti più complessi e caotici della musica moderna. Gli anni Settanta furono tutto e il contrario di tutto, anni difficili per qualunque genere musicale, poiché ogni elemento tendeva a sovrapporsi e a mescolarsi, fondendosi in una specie di esperanto musicale, mai accettato dai puristi. Oltremodo parte di questo nuovo linguaggio risultò poco comprensibile alla moltitudine. Il breve periodo in cui Keith Jarrett si legò alla Impulse!, rimane uno di quelli più aderenti alla sintassi del jazz, sia pure con molte deviazioni.
Non ci sono quasi immagini del concerto di Keith Jarrett a Colonia. Qui, durante un concerto sull’Isola di Wight nel 1970. (Jean-Pierre Leloir)
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Enrico Merlin ripercorre la storia di questo mitico concerto che Keith Jarrett tenne il 24 gennaio 1975, trasformando quella serata, in cui non mancarono problemi e contrattempi a non finire, in un evento che ha segnato, a torto o a ragione, la storia della musica live. Il Köln Concert, una “leggenda” sbocciata nelle avversità di Enrico Merlin
Quando la tenacia supera ogni avversità, a volte, nascono dei capolavori. Quella volta, all’Opera di Colonia, il pianoforte richiesto da Keith Jarrett e dal produttore Manfred Eicher (il quale aveva previsto di registrare la performance per la sua etichetta ECM) non arrivò in tempo, né per le prove né per il concerto. Pare che nel teatro ve ne fossero due residenti, ma il pianista non li considerava all’altezza dei suoi standard. Deciso comunque a onorare l’impegno, Jarrett optò per l’unico che gli sembrava almeno accettabile. A peggiorare l’umore contribuirono una cena pessima e il fatto che il pianista arrivava dalla Svizzera in compagnia del produttore a bordo della sua Renault R4. In aggiunta, per varie ragioni, non dormiva da due giorni. Ma non era finita… Ritornato al teatro per il concerto il pianista scoprì che per un disguido era stato portato in scena il pianoforte scartato, un Bösendorfer mezzacoda, generalmente impiegato per le esercitazioni del coro del teatro. Lo strumento presentava diversi limiti: i bassi risultavano privi di corpo, gli acuti tendevano a un suono metallico e il pedale di risonanza non funzionava correttamente. A quel punto chiunque avrebbe annullato il concerto. Ma Keith Jarrett ed Eicher decisero di andare avanti, malgrado tutto… Di fronte a queste condizioni, Jarrett fu costretto a rivedere la propria strategia esecutiva, privilegiando le zone centrali della tastiera ed evitando le estensioni più gravi. Queste limitazioni, però, contribuirono paradossalmente a modellare il carattere sonoro del concerto: l’attenzione si spostò su un fraseggio più arioso e ricco di nuances ritmiche, mentre l’assenza di profondità nei bassi venne compensata da un uso più espressivo della dinamica e dei registri medi. Jarrett, da sempre, affronta la performance di solo piano in un modo non paragonabile ad altri artisti. La tecnica consiste nel partire da una piccola cellula (melodica, ritmica o armonica), spesso composta da poche battute, che viene sviluppata attraverso il processo improvvisativo. Jarrett lavora attorno a questa cellula primordiale fino ad approdare a un nuovo modello, che viene anch’esso sottoposto a un processo evolutivo di variazioni. Le fonti di ispirazione e le metodiche di intervento sono le più disparate, dal gospel al blues, dalla musica classica al jazz, da un approccio triadico di matrice country-pop a
Un momento del memorabile Köln Concert che Keith Jarrett tenne il 24 gennaio 1975.
Keith Jarrett
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