GrooveBack Magazine 004

quel senso di stanchezza che spesso assale con un ascolto prolungato del digitale. Ci si chiederà, a questo punto, quale possa essere stato il motivo per cui una tale meraviglia sia stata accantonata tanto a lungo, la ragione per cui si sia preferito aderire totalmente alla filosofia del digitale, una questione questa che si era già posta per la strenua battaglia fra vinile e CD (e più in generale fra analogico e digitale), vinta - come si sa - dal dischetto argentato. Ci vengono in mente tre cose (ma ce ne sono in ballo anche altre): la comodità, il rapporto s/r, la dinamica.

ricordiamo, con l’arrivo delle tecniche binarie, come avrebbe potuto resistere a lungo un sistema - la bobina - di gran lunga più difficile da maneggiare, gestire, acquistare, anche rispetto al “discone” nero? La smaterializzazione quasi completa dell’informazione musicale (“quasi” perché il CD era comunque un oggetto fisico) esercitò un fascino immediato: sembrò che meno materia ci fosse in ballo e più puro sarebbe stato il flusso di dati, oggettivi e poi percettivi, disponibili all’ascoltatore. Una fascinazione alimentata dal pregiudizio che la materia sporca, distorce, si frappone. Che sia, cioè, un ingombro. Come se il suono degli strumenti, che viene preso da un microfono per essere convogliato dentro un sistema di registrazione, da cui poi sarà prelevata una sua duplicazione che sarà trasferita in un supporto, per essere amplificata e riprodotta da macchine e da diffusori che lavorano con materia, elettrica, meccanica, sonica, come se tutto questo non fosse materiale. Perché, diciamolo, il digitale non ha sostituito realmente l’analogico, che gli è rimasto intorno, come un ambiente naturale rimane intorno a un organismo emergente. Gli si è incastrato dentro, come un momento, una fase, del processo. Il reel to reel ebbe una fortuna commerciale relativa: era ovviamente presente negli studi di registrazione, nelle radio, faceva la sua comparsa negli eventi live . Non era frequentissimo però incontrarne uno nei salotti della gente: troppo costoso acquistarlo, ancora più impegnativo nutrirlo, con i nastri pre-registrati quasi introvabili, cari, delicati. Nelle case di chi se lo poteva permettere aveva spesso la funzione di registrare, più che quella di riprodurre: era costume diffuso fare copie dei vinili, in parte per la convinzione che questi ultimi andassero risparmiati al processo di usura, in parte per la sensazione (spesso suffragata da dati reali) che suonasse meglio, in parte perché ciò consentiva di crearsi delle compilations di qualità, di gran lunga superiori a quelle create con l’ausilio della cassetta audio. La sua “rarità” andava alimentando il suo elemento di esoticità: un impianto che lo comprendesse era per ciò stesso considerato superiore, di una ben altra categoria. E la pubblicistica dell’epoca alimentava a sua volta questo immaginario: le foto che ritraevano vip, personaggi dello spettacolo, musicisti, sportivi, nell’intimo della loro sala d’ascolto, facevano sfoggio di queste macchinone eleganti (non sempre), massicce (anche troppo), ad alto tasso tecnologico (per i criteri dell’epoca). Il declino non fu rapidissimo, per un po’ di tempo le elettroniche digitali convissero con le bobine, ma fu inesorabile. Queste troppo ingombranti, troppo rumorose, troppo scomode rispetto a quelle. E per almeno un paio di decenni si smarrì l’incanto. A questo punto, quale può dunque essere oggi il senso di un recupero di questi oggetti? Quale significato reale possiamo dare al loro uso? Al di là della trita questione del vintage e della leva che gli offre il sentimento della malinconia e del rimpianto, ciò che ci chiediamo è: vale la pena di investire denaro e tempo nel recupero di macchine vecchie perfino sessant’anni e nella laboriosa e dispendiosa ricerca del materiale musicale da dargli in pasto? La risposta è: sì! Ne vale la pena. Che si opti per un più abbordabile consumer o un appena più impegnativo semi-professionale o si punti direttamente a un professionale, il mercato dell’usato di qualità è oggi piuttosto florido: si passa da un migliaio di euro per un Revox A77 ai 1.500 di un Revox B77, per arrivare agli 8/10.000 euro per uno Studer A80 (a seconda che sia o meno provvisto di bridge , la

Uno dei migliori registratori a bobina, il Revox B77.

Il digitale è comodo, molto meno impegnativo per tutto ciò che riguarda il settaggio e il mantenimento della macchina (l’usura di un carrello o di un pickup laser in un CD player è infima rispetto alla complessa catena che trascina, legge, stabilizza un nastro lungo il suo percorso), la sua evoluzione liquida ha permesso livelli di disponibilità del materiale musicale, facilità di gestione, controllo, a dir poco stratosferici. I rumori con il digitale o non esistono o sono ridotti a una sostanziale inudibilità, e da ciò deriva un miglioramento straordinario del dettaglio e della dinamica. Con un nastro, invece, si sente proprio il fruscio del contatto con la testina, più o meno come i clic e i pop di un vinile. E il rapporto segnale/rumore nel migliore dei casi non va oltre i 70db. Ricordiamo tutti l’impressione iniziale che il CD, con la sua dinamica esasperata, produsse negli ascoltatori meno smaliziati: una meraviglia di potenza! Per non parlare dell’analiticità: come inforcare un paio di occhiali che fanno avanzare la capacità visiva fino a 12/10. Che poi, però, dopo un po’ ti regalano un solenne mal di testa. Se la traccia registrata a monte era - metaforicamente - di 10/10, il reel to reel te la ripropone a 10/10. Esattamente. Ossia, realismo, fisicità, musicalità! Se il reel to reel è questa cosa che abbiamo detto, che regala un’esperienza così intensa, così indimenticabile, perché invece è stato dimenticato per così tanto tempo? Perché le sue macchine sono rimaste ad ammuffire per decenni in umidi scantinati? Cosa gli ha fatto preferire, in un modo tanto radicale, il digitale, con le sue promesse, più o meno mantenute, di stabilità, di comodità, di linearità? La vicenda dei registratori a bobine si è trovata incastrata dentro a quella più grande e comprensiva dell’abbandono dell’analogico. Non dimentichiamo che alla fine degli anni Ottanta intere collezioni di vinili furono svendute - quando non addirittura gettate via - per essere sostituite dagli omologhi CD. Il digitale colpì con una violenza inusitata, come mai prima era successo quando una tecnologia supera e soppianta un’altra precedente. In realtà non si trattava solo di un mero passaggio da un sistema a un altro: ciò che era in ballo era un cambio di paradigma - per dirla con il filosofo e fisico americano Thomas Kuhn - un “mondo” che veniva scalzato da un “altro mondo”. Se il vinile ebbe il trattamento che

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