A mezzo secolo di distanza, Francesco Cataldo Verrina riconsidera, a bocce ferme, quello che è considerato come il più famoso concerto dal vivo della storia del jazz, soprattutto alla luce di altre live performances dell’artista di Allentown che invece non hanno avuto altrettanta notorietà. Ma il vero Keith Jarrett fu quello del The Köln Concert?
a disposizione sul palco almeno un Bösendorfer 290 Imperial, ma si trovò sottò gli occhi un malconcio piano della stessa marca, per giunta molto più piccolo, con una coda di sette piedi, non revisionato e poco accordato, tanto che il pianista avrebbe usato in massima parte i tasti centrali dello strumento. Arrivato sul luogo la sera prima - come raccontano le cronache - la reazione iniziale di Jarrett fu quella di non voler suonare, ma il giorno seguente giunse a più miti consigli, accettando il compromesso. Il pianista lo fece, però, controvoglia e con l’aria strafottente - conosciamo tutti il suo carattere - per la serie: «Devo esibirmi, mi pagate, allora, suonerò quello che mi passa per la testa». La vera genialità, l’autentico capolavoro di Jarrett va ricercato soprattutto in «quello che mi passa per la testa». Si potrebbero cercare un’infinità di metafore, ma quella situazione imbarazzante e di disastro annunciato riuscì a trasformare «il brutto anatroccolo in un bellissimo cigno», invertendo la direzione di una sorte inizialmente avversa. Ma adesso, dopo cinquant’anni, al netto degli entusiasmi celebrativi, ragionando a bocce ferme, possiamo tranquillamente affermare, senza tema di smentita, che Keith Jarrett non fece nulla di diverso rispetto a quanto avrebbe fatto, forse in condizioni ottimali, e che già faceva da anni, ossia essere un campione olimpionico, il vessillifero del pianismo jazz improvvisato, dove l’improvvisazione diventava parte del tema se non l’asse portante dell’impianto tematico ed esecutivo. La caratteristica preminente dello stile jarrettiano è sempre stata la cosiddetta «composizione istantanea» che, quando praticata, il musicista deve essere in grado di formulare un’idea musicale dopo l’altra e riprodurla immediatamente sullo strumento, mentre ne sta eseguendo un’altra. L’esecutore dev’essere capace di concepire le frasi musicali in tempo reale ed essere tecnicamente all’altezza di suonarle senza cozzare troppo con il sistema armonico, evitando, così, che la struttura tematica appaia disgregata ed incongrua. Ad esempio, quando si tenta un paragone fra Chick Corea e Keith Jarrett, fior di musicologi ci avvertono che Chick è stato il maestro dell’arte scritta e regolamentata, arricchita da un tipo di improvvisazione razionale, secondo l’assioma condiviso da tutta una scuola di jazzisti, secondo i quali «l’improvvisazione non si può improvvisare»; per contro Keith è stato sempre un attore istintivo sulla scena, capace di composizione in tempo reale e di un’improvvisazione quasi per contagio. Il concerto di Colonia fu completamente improvvisato senza schemi prefissati, frutto del libero fluire dei pensieri e delle idee melodiche di Jarrett, miste a una punta di rabbia e di disapprovazione per le condizioni ambientali, le quali divennero il vero carburante della serata. Pensando di fare un dispetto agli inospitali ed approssimativi tedeschi, il pianista di Allentown, che dal 1973 andava ramingo per le lande germaniche proponendosi in vari formati e situazioni, trovò il suo passaporto per le stelle. Non è che l’improvvisazione l’avesse inventata Jarrett in quell’occasione. Magari, a molti profani potrebbe essere sembrato così. Pensate che già nel 1639, durante il periodo barocco, c’era qualcuno che a proposito di Girolamo Frescobaldi, organista e clavicembalista, scriveva: «Per poter giudicare del suo profondo sapere bisogna sentire le sue toccate improvvisate, piene di finezze e di scoperte meravigliose». Tutto ciò vale anche per Jarrett e per i veri improvvisatori che, nel corso dei secoli, si sono distinti per tale peculiarità. In riferimento al The Köln Concert , probabilmente solo un altro grande del jazz moderno sarebbe stato in grado di uscire dalle sabbie mobili di una situazione avversa e improbabile, ossia Charlie
di Francesco Cataldo Verrina
Sono passati cinquant’anni da The Köln Concert di Keith Jarrett. Quando il pianista in solitaria fissò la sua performance su nastro era il 24 gennaio 1975, mentre il doppio album venne dato alle stampe dall’ECM il 30 novembre dello stesso anno. Milioni di copie vendute su vari supporti nell’arco di dieci lustri, fanno del concerto jarrettiano uno dei dischi commercialmente più rilevanti della storia della musica del Novecento con numeri che, in precedenza, salvo qualche rara eccezione, erano appartenuti solo all’effimero universo del pop. The Köln Concert , specie nell’edizione in vinile, ha finito per diventare un must e un punto di riferimento per gli audiofili grazie alla sua indiscutibile qualità sonora. Si faccia attenzione, però, a non utilizzare con leggerezza
Keith Jarrett © Roberto Masotti (ECM Records).
il termine “capolavoro”, a meno che non si voglia far confusione fra quantità e qualità. Questo perché The Köln Concert , considerando le condizioni disastrose in cui venne registrato, fu davvero un capolavoro d’inventiva e di disperazione che contempla pienamente il motto latino: ad astra per aspera . Per intenderci, si possono raggiungere le stelle solo attraverso le difficoltà e le asperità, e quel giorno Jarrett ne incontrò più di una. Un’indigestione la sera precedente con relativa notte insonne, una pessima organizzazione, un management dilettantistico e soprattutto un vecchio pianoforte mezzo stonato e con un pedale fuori uso. Non potendo contare su un pianoforte a coda Steinway & Sons, Jarrett si aspettava di avere
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