GrooveBack Magazine 004

Parker, il quale lo fece più volte, magari senza i risvolti commerciali di Jarrett. Erano, però, altri tempi. C’è un episodio della vita artistica e concertistica di Bird non dissimile all’avventura di Jarrett all’Opera House di Colonia: il famoso concerto di Charlie Parker alla Massey Hall di Toronto del 1953 che, tenutosi in una situazione di caos organizzativo, finì per diventare, discograficamente, uno dei momenti più acclamati della carriera del sassofonista. In occasione del The Köln Concert , di cui alcune parti dal punto di vista musicologico risultano alquanto discutibili, Jarrett non fece nulla di trascendentale, se non usare una tecnica a lui congeniale, ossia la suddetta «composizione istantanea» e lo fece con estrema furbizia, senza neppure rischiare molto. Come abbiamo già acclarato, il suo fu più un atto dimostrativo, una sorta di sfregio, almeno nelle intenzioni iniziali e senza neppure la totale consapevolezza di cosa stesse realmente facendo. Tutto il concerto era finalizzato a coprire un dato tempo di esecuzione come pattuito dal contratto e dal relativo compenso. Ironia della sorte fu che qualcuno ebbe la brillante idea di registrare la performance con apparecchiature professionali che in Germania, al tempo, erano più evolute che in altre parti del mondo, USA compresi. Un aspetto rilevante del concerto riguarda l’elevato numero di improvvisazioni eseguite su una vamp , per intenderci un ostinato di uno o due accordi (al massimo) per periodi piuttosto estesi. Nella parte chiamata I, il pianista si lancia in ben dodici minuti di improvvisazione, utilizzando tecnicamente due soli accordi: la minore di settima e sol maggiore; negli ultimi sei minuti, invece, fissa il tema su un unico accordo, quello del la maggiore. Nella parte IIA, gli

questo disco riproduce la stessa atmosfera di un concerto da camera per pianoforte, senza ovviamente le regole della musica classica, soprattutto senza l’anima nera del jazz e i suoi elementi di rottura musicale: il free jazz , specie in Europa, in quegli anni, era ancora in piena deflagrazione. Come già ampiamente narrato, il fulcro dell’evento è rappresentato dall’atto estremo di un musicista disperato. Alcuni attenti studiosi e musicologi di fama hanno intercettato, in questa lunga maratona improvvisata, frammenti e citazioni di tutto lo scibile sonoro: dalla musica classica all’operetta, dalla canzonetta popolare al folklore celtico, dal blues allo swing e al soul, ma soprattutto furono rilevate notevoli incongruenze tecniche, per cui molte parti dell’opera non sarebbero trascrivibili. Il successo del The Köln Concert fu talmente inaspettato, inatteso e planetario che Keith Jarrett seppe cavalcare l’onda, divenendo il templare dell’improvvisazione in piano solo, anche tecnicamente incongrua e basata sull’intuito e sull’istinto della composizione istantanea e in tempo reale. Le sue parole risultano alquanto eloquenti: «Non possiedo nemmeno un seme quando comincio a suonare. È come partire da zero. Il jazz è lasciare che la luce brilli. Non cercare di accrescerla, ma lasciarla essere [...]. Quando sono sul palco e c’è solo un pianoforte, è come se il corpo sapesse esattamente cosa deve fare perché, se dico alle mani cosa suonare, impedisco loro di eseguire qualcosa di meglio di ciò che sto pensando».

Non tutti i concerti di Jarrett ebbero la fortuna di quello di Colonia

In un’intervista rilasciata a Stuart Nicholson nel 2009, Jarrett spiegò la genesi di The Survivors’ Suite , album realizzato con il cosiddetto “quartetto americano”, formato, oltre che da Jarrett, da Dewey Rodman, Charlie Haden e Paul Motian: «Tutta la musica fu scritta appositamente per l’Avery Fisher Hall di New York, perché sapevo che avremmo suonato lì, di fronte a Monk. Infatti, il quartetto si esibì in quella sede il 3 luglio 1975 in un cartellone condiviso con gli Oregon e il quartetto di Thelonious Monk. Sapevo che suonando all’Avery Fisher Hall il suono sul palco sarebbe stato dispersivo e non adatto ai tempi veloci, così decisi di scrivere qualcosa di più adatto per quella serata e a quel tipo di acustica. C’era una logica in tutto questo, ma se dovessero dirmi: lei, signor Jarrett, concepirebbe davvero l’idea di scrivere un tipo di musica per una specifica sala da concerto? Probabilmente risponderei: no! Ma la risposta sta nel fatto che sapevo che la sala era molto scarsa per certi tipi di performance e se ascoltate attentamente The Survivors’ Suite , noterete che non ci sono tempi veloci» . Un mese dopo, il gruppo registrò un altro album per la ECM, ma questa volta fu un’esperienza completamente diversa, caratterizzata dal ritardo di Dewey Redman. Il sassofonista, spesso in preda ai fumi dell’alcool, arrivava sempre in ritardo alle prove, e lo fece anche durante quella registrazione dal vivo. Jarrett raccontò di una serata piena di colpi di scena: «La lunga introduzione di pianoforte su Eyes Of The Heart non doveva esserci. Ho dovuto continuare a suonare perché uno dei ragazzi non era sul palco quando avrebbe dovuto». Tutto ciò a dimostrazione della genialità del pianista che era in grado di comporre in tempo reale in relazione all’ambiente, alla situazione e alle circostanze. Eyes Of The Heart , pur interessante nella sua complessità sonora, è il frutto non solo di tensioni musicali, ma anche di tensioni personali tra i membri del gruppo, il

ultimi otto minuti si concentrano sul re maggiore, mentre nella parte IIB, durante i primi sei minuti, Jarrett improvvisa sul fa diesis minore. A tratti il suo modus operandi è più tranquillo, a volte pesca nel blues o nel gospel, altre ancora attinge a qualche reminiscenza “eurodotta” o al folklore popolare ma, a conti fatti, non si prende molti rischi, come invece faceva Charlie Parker. In buona sostanza, qualcuno potrebbe chiedersi: che cos’è realmente il concerto di Colonia di Keith Jarrett: un capolavoro o sottofondo termale stile new age ? Forse come sospinto da una forza sovrannaturale, il pianista creò quella che è stata la più grande improvvisazione assoluta della storia del jazz (con un solo uomo al comando), o di un qualcosa che musicalmente al jazz potesse somigliare. Lo sviluppo creativo ed espressivo fu notevole ma, estrapolato dal contesto,

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