GrooveBack Magazine 004

cui affiatamento era andato progressivamente peggiorando a partire dai loro ultimi tre album, e secondo alcuni, iniziando ad avere un impatto negativo sulla musica. In verità, l’album presenta alcune anomalie, come il fatto di essere originariamente pubblicato come un set di due LP con sole tre facciate incise e una completamente vuota. È probabile che buona parte del materiale registrato non fosse stata ritenuta tecnicamente all’altezza per poter completare il quarto lato. Si consideri che il tempo complessivo della musica sulle tre facciate è di soli quarantuno minuti, inferiore alla durata minima di qualsiasi concerto. Questo lasciò intuire che una parte fosse stata scartata dalla ECM, che non la riteneva qualitativamente adatta al proprio standard sonoro. Soprattutto si preferì spalmare i tre lunghi brani su tre facciate per garantire una migliore fedeltà d’ascolto. Con l’arrivo del CD la faccenda passò in cavalleria. Pubblicato nel 1979, Eyes Of The Heart fu registrato dal vivo nel maggio del 1976 a Bregenz in Austria, presso il Theater am Kornmarkt, nel classico line-up americano con Keith Jarrett (che oltre al piano suona anche il sax soprano), Dewey Redman al sax tenore, il bassista Charlie Haden e il batterista Paul Motian. L’attività del quartetto americano è al rush finale: aveva da poco registrato The Survivors’ Suite , praticamente un mese prima e in ottobre sarebbe tornato in studio un’ultima volta per gli album Byablue e Bop-Be . Che quel giorno in Austria ci fossero dei dissapori e delle frizioni fra i vari componenti del gruppo è dimostrato dal fatto che Dewey Redman arrivò solo ai due terzi della seconda traccia. La storia ufficiale, raccontata da Jarrett in una sua biografia, è che il sassofonista stesse bevendo vino fuori dal palco e che fosse visibilmente alterato. Prima che Dewey Redman entrasse in scena, Jarrett dilatò i tempi, suonando il piano quasi da solista, mentre lo svolgimento apparve più ripetitivo e meno interessante perfino rispetto ai noti concerti in solitaria di quel periodo, soprattutto con il musicista di Allentown che cercò di compensare con un lungo assolo di soprano nella parte iniziale. L’assenza di Redman, con il suo melodismo oscuro e burbero, rese più asfittico lo stile di Jarrett solitamente più lirico e scorrevole. Nei primi venticinque minuti, nonostante lo sforzo del leader , perfino Motian e Haden sembrarono vacillare, risultando un po’ letargici. Con l’ingresso di Redman, a circa dieci minuti dall’inizio della seconda traccia, la musica decollò notevolmente. Il movimento dilatorio, che Jarrett aveva sviluppato in precedenza, s’infittì di colpo intensificandosi, mentre Haden e Motian si svegliarono improvvisamente. Redman si produsse in un assolo ruvido e intenso. Encore della durata di diciotto minuti, il momento migliore e più completo dell’album, collocato sulla terza facciata (quella orfana), iniziò con le movenze di un calypso e il sassofonista accennò brevemente a qualcosa che richiama St. Thomas di Rollins, seguito da un breve assolo di batteria da parte di Motian, quindi Jarrett con il soprano creò una breve atmosfera alla Ornette, incalzato ancora dal tenore di Redman, infine un’improvvisazione per pianoforte di Jarrett. Gli intoppi iniziali non tolgono molto al valore complessivo dell’album, ogni registrazione di questa formazione (probabilmente il miglior team di lavoro di Jarrett) merita una prova d’appello: il suono è sempre ben caratterizzato, mai prevedibile e ricco d’inventiva. Nel complesso, questo è uno dei dischi più gracili del quartetto americano, se confrontato con il robusto Fort Yawuh , registrato tre anni prima al Village Vanguard,

quando l’ensemble era al top della vigoria creativa ed esecutiva. Ciononostante, in Eyes Of The Heart ci sono molti lampi di genio, sia pure occasionali, tanto che per gran parte del concerto non si capisce se, oltre a Jarrett, il resto della band sia sul palco, ma quando compaiono Charlie Haden si mostra ancora al top della forma, Dewey Redman suona con una voce lamentosa e impenna sul registro più alto dello strumento, tanto da richiamare l’idea di Jan Garbarek e Jarrett insieme. Forse un vaticinio involontario. Come già detto, c’era tensione (non solo musicale) tra i membri del gruppo, Redman non compare nella prima traccia, tanto da costringere Jarrett e Haden ad estendere quella che doveva essere una semplice introduzione e a trasformarla in una suite di diciassette minuti, ma quando Redman decide finalmente di unirsi alla ciurma, entra con un tocco preciso, simile a quello di un artista che infligge colpi decisivi di pennello a una tela ancora grezza e indefinita. La tensione sale velocemente e l’improvvisazione di gruppo raggiunge il climax . Questi sei minuti, consegnati alla storia, valgono l’intero prezzo della corsa.

Siamo davvero sicuri che il vero Jarrett sia quello del The Köln Concert?

Con buona probabilità Jarrett trovò la sua quadratura del cerchio, almeno jazzisticamente parlando attraverso la consolidata formula del piano trio. Still Live è una delle riprese sonore dal vivo più riuscite non solo della storia del jazz post- moderno, ma sicuramente uno dei dischi più attrattivi e intriganti della lunga e inquieta attività di Keith Jarrett; si consideri che nell’evoluzione del piano trio post-bop, questo risulta essere uno dei line-up più equilibrati, il triunvirato delle meraviglie, quasi un incastro perfetto, così come lo era stato il cosiddetto “quartetto americano” durante la prima fase della carriera del pianista; si tenga altresì presente che il piano trio costituisce, probabilmente, la dimensione espressiva più adatta all’indole di Keith Jarrett, personaggio eclettico e umorale, non facilmente circoscrivibile. Nonostante egli sia ancora un artista contemporaneo, la storia l’ha più volte celebrato e consegnato agli annali del jazz per le sue memorabili performance in solitaria. A parte il discusso The Köln Concert , il quale contiene - come evidenziato - anche molte parti oscure e poco brillanti, eufemisticamente potremmo dire evasive, nel piano solo Keith Jarrett finisce per essere dispersivo e tracimante, come un torrente che non si contiene e fuoriesce dagli argini, mentre nella configurazione piano trio, oltre a beneficiare di un prezioso sostegno, di un suggerimento, di immancabili scambi e piacevoli cambi di passo, ha la garanzia di una struttura di contenimento, che riesce a incanalare il flusso sonoro in maniera più regolare e comprensibile, anche durante le lunghe digressioni improvvisative. Quando tale supporto, umano e musicale, nonché ampliamento creativo del progetto, giunge da Gary Peacock al basso e Jack DeJohnette alla batteria, allora non è difficile trovare la quadratura del cerchio. In effetti, la perfetta circolarità di Still Live diventa un dono degli dèi alle umane genti. Senza tema di smentita, Still Live si candida a essere un capolavoro del jazz degli anni Ottanta in tutte le sue diramazioni ed accezioni. Il doppio album, registrato dal vivo in digitale il 13 luglio 1986 presso la Philharmonic Hall di Monaco, è il frutto di una tempesta perfetta di suoni che raggiungono l’apogeo nella quiete interiore. Jarrett è guidato da

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