del linguaggio polifonico vocale che dall’Alto Medioevo fino al secolo XVI è caratterizzato dalla ricerca di nuove tecniche compositive e dall’acquisizione di modelli formali sempre più raffinati. Lo stile palestriniano riunisce in sé tutti gli aspetti caratteristici del linguaggio polifonico, li plasma fino a condurli al limite supremo di perfezione. Come abbiamo già osservato, all’inizio di questo articolo, fra i musicisti della sua generazione, Palestrina è il compositore che più d’ogni altro ha saputo assimilare e portare a vertici di perfezione assoluta la tecnica compositiva dei maestri franco- fiamminghi, ponendosi come ideale prosecutore del magistero di Josquin des Prez, al quale il polifonismo palestriniano sembra di continuo ispirarsi per ciò che riguarda il progredire melodico delle singole voci, la rievocazione della melopea gregoriana nel dispiegamento delle parti dell’ordito polivoco all’interno del tessuto del contrappunto e l’uso sapiente del ritmo musicale in funzione di quello prosodico. Ciò che riconduce l’immensa produzione palestriniana (oltre cento messe da quattro a otto voci; più di trecento motetti da quattro a dodici voci; centoventuno madrigali da quattro a sei voci) a un comune denominatore è la profonda interazione che intercorre fra parola e suono, fra metro verbale e metro musicale, fra pregnanza semantica della parola e aderenza figurativa della linea contrappuntistica destinata a raffigurarla. Significativamente, è soprattutto nella composizione di motetti, una delle sue espressioni compositive qualitativamente più elevate e perciò più originali, che tale svolgimento stilistico si afferma con maggiore evidenza. Vale la pena di ricordare come ancora all’epoca di Palestrina, il motetto (si scrive, contrariamente a quanto si creda, «motetto» con una sola «t» e non con due, in quanto questo termine, d’origine medievale, risalente alla seconda metà del secolo XIII, deriva dalla parola francese «mot» che significa parola e vuole enfatizzare i primi tentativi dei polifonisti parigini di Nôtre Dame di porre un testo, ossia delle parole, sotto le linee sovrastanti la linea del “tenor”) fosse caratterizzato da una struttura fondata su leggi contrappuntistiche, per le quali la «musica era “signora”, non “serva” dell’oratione», per le quali il testo letterario era subordinato alle regole e agli atteggiamenti compositivi da impiegare tanto nella scelta della modalità, delle cadenze, del ritmo. Ma via via che si procede verso la fine del secolo XVI, anche il motetto, al pari del madrigale, si trasforma in una composizione concepita come un insieme di periodi, ciascuno basato su un piccolo segmento testuale, raffigurato per mezzo di opportuni artifici musicali. Attraverso questa prassi, regolata dalle leggi della poesia e, dunque, della retorica, il compositore realizzava ogni carattere «affettivo» insito nel testo e lo manifestava all’ascoltatore. Una composizione cosí strutturata diventava pertanto una sequenza di disparate maniere di artifici. Nella lunga e mutevole storia dei rapporti tra parola e musica motetto e madrigale diventano, dunque, il campo d’azione principale di quel lento ma inesorabile processo di verbalizzazione della musica che pervade il Cinquecento intero e che trova nella generazione dei musicisti operanti intorno alla metà del secolo, i suoi più assidui sostenitori. D’altra parte, le relazioni fra musica e ars dicendi (grammatica, retorica e dialettica) rappresentano un dato costante che si riscontra nella polifonia dei secoli XV e
La parte del “tenor” nel motetto Sicut cervus, uno dei più famosi dell’intera produzione di Giovanni Pierluigi da Palestrina.
condotta sull’intero repertorio polifonico del musicae princeps . Non a caso, in Germania, pochi anni dopo la pubblicazione delle bainiane Memorie storico-critiche, il musicologo tedesco Carl Georg von Winterfeld (1784-1852) ne sfruttò abbondantemente le fonti per realizzare il suo Johannes Pierluigi von Palestrina, seine werke und deren Bedeutung für die Geschichte der Tonkunst (Breslavia, 1832). Lo studioso tedesco si fece inoltre promotore del progetto di pubblicazione degli opera omnia di Palestrina, mediante sottoscrizione. Purtroppo, il tentativo non ebbe seguito. Dovettero trascorrere ancora alcuni lustri prima che la casa editrice Breitkopf und Härtel di Lipsia potesse dar inizio all’impresa. Fra il 1862 e il 1907 l’opera (trentatré volumi) venne completata: Theodor de Witt, Johann Nepomuk Rauch, Franz Espagne, Franz Commer e soprattutto Franz Xaver Haberl, ne furono i preziosi artefici. Tuttavia, a questo fervore editoriale palestriniano, non poteva rimanere estraneo il nostro Paese. Ed è così che, a partire dal 1939, la casa editrice romana dei Fratelli Scalera, dava alle stampe una nuova edizione, in trentaquattro volumi dell’intera silloge di musiche palestriniane, affidandone la cura e lo studio al compositore e musicologo perugino Raffaele Casimiri (1880-1943). Questi riuscí a preparare l’edizione dei primi quindici volumi previsti dal piano editoriale; gli altri vennero redatti da Lavinio Virgili, Knud Jeppesen e Lino Bianchi. Questa edizione comprende anche le dieci messe mantovane di Palestrina, scoperte da Jeppesen nel 1950, studiando i codici del fondo musicale della Basilica di Santa Barbara della corte gonzaghesca di Mantova. Non v’è dubbio che già verso la fine del secolo scorso, la pubblicazione degli opera omnia palestriniani abbia favorito l’infittirsi degli studi musicologici e dei contributi critici, giunti, ai nostri giorni, a un numero impressionante di titoli. Attraverso queste ricerche, appare sempre più chiaro ed evidente come l’arte di Giovanni Pierluigi da Palestrina segni il momento culminante e conclusivo di quel processo di trasformazione
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