GrooveBack Magazine 004

di modernità, almeno dal punto di vista estetico, consiste nel fatto che Lacy usa moduli espressivi provenienti dalla tradizione afro-americana per creare una sorta di inno nazionale francese vicino al soul e tutt’altro che contiguo alle fanfare d’Oltralpe, tanto che Irene Aebi diventa la voce perfetta per eseguire questa canzone che è più di una semplice narrazione cantata. Siamo in presenza di un tributo, una celebrazione, a vantaggio di qualsiasi rivoluzione, che sconfina idealmente anche in quell’epocale sommovimento sociale e culturale che furono l’emancipazione dei neri d’America e l’abolizione della schiavitù, anche se con tono sfumato e moderatamente conflittuale. Del resto, i principi di fratellanza, libertà ed uguaglianza enunciati dalla Rivoluzione francese ben si adattano a qualunque altro tipo

November , un intenso live registrato a Zurigo il 29 novembre 2003, sei mesi prima della morte avvenuta a Boston il 4 giugno 2004. In una traccia intitolata Tina’s Tune , il sopranista fa sentire anche la sua voce declamando i versi del poeta giapponese Ozaki Koyo. Per contro nel suddetto album del 1961, dedicato alla direzionalità del suo strumento, Lacy è accompagnato da Charles Davis al trombone, John Ore al basso e Roy Haynes alla batteria. Niente pianoforte, ma il flusso melodico-armonico è garantito dall’incessante interscambio tra batteria e contrabbasso, mentre i due fiati dialogano e improvvisano a briglie sciolte. Lacy e compagni danno nuova forma e sostanza, aggiungendo fermenti vivi, a Louise Air di Cecil Taylor, Donna Lee di Charlie Parker, nonché alcuni immancabili classici del repertorio monkiano: Introspection , Player Twice e Criss Cross . I quattro sodali non si limitano a eseguire lo scibile sonoro trattato in maniera tributaristica, ma destrutturano il parenchima e tentano altre vie possibili, pur salvaguardando gli assunti basilari delle partiture originarie. La presenza di Thelonious sarà una costante nella vita del sopranista. Si pensi a Only Monk e More Monk , altri due album «italiani» registrati, uno nel luglio del 1985 e l’altro nell’aprile del 1989, allo studio Barigozzi di Milano e pubblicati dalla Soul Note. L’Italia fu terreno fertile per il sopranista ed è certamente degno di nota anche l’album Change Of Season , fissato su nastro sempre al Barigozzi di Milano e dato alle stampe dalla Soul Note nel 1985 con gli arrangiamenti de pianista olandese Misha Mengelberg, in cui emergono elementi jazzistici tipici del Nord Europa. Mengelberg, un musicista con cui Lacy sembrava avere molte affinità, era noto alle cronache per le sue

Mal Waldron, con il quale Steve Lacy ha dato vita a uno dei momenti più esaltanti della storia del post-bop.

di rivoluzione. In Anthem , Steve Lacy implementa il suo sestetto di base con l’aggiunta di un trombone, percussioni e voce, producendo una gamma più ampia di trame sonore rispetto ai dischi precedenti. Il fulcro dell’opera è proprio Prelude And Anthem , un tema angolare che si sviluppa in modalità libera, con l’improvvisazione all’unisono degli strumenti a fiato, mentre percussioni e pianoforte si sovrappongono continuamente, interagendo con un’eco vociferante. Gli elementi dissonanti sfatano la solennità della cerimonia ed evocano il caos arrembante della rivoluzione. Irene Aebi contribuisce con la sua voce profonda e sofferente, aggiungendo qualche stilla in malinconia in The Mantle , ma soprattutto nell’enigmatica ballata ispirata a Mingus, Prayer e dedicata a Charlie Rouse. In fondo, Anthem è una forte pozione a base di soul-jazz, che incrocia il crepuscolo del vecchio secolo e l’alba del nuovo millennio, anche se siamo ancora nel 1990. Non può essere disconosciuto il fatto che Steve Lacy, morto a 69 anni, abbia avuto una lunga e variegata carriera con un costante miglioramento stilistico e un’evoluzione adattiva e più congeniale alla scena europea: non si dimentichi che ha vissuto per tanti anni in Francia e frequentato a lungo anche la scena italiana. Impossibile dimenticare due album di grana finissima, Axieme Vol. 1 & 2, realizzati in solo nel 1975 per la Red Records di Sergio Veschi e Alberto Alberti. Come non ricordare anche Trickles con il Roswell Rudd Quartet e pubblicato nel 1976 dalla italianissima Black Saint. Difficile paragonare, ad esempio, il suo terzo album come band-leader, The Straight Horn Of Steve Lacy , inciso in quartetto pianoless per la Candid, al suo ultimo lavoro in solitaria,

incursioni nell’improvvisazione libera e come interprete di spicco di brani di Thelonious Monk e Herbie Nichols tradotti in una dimensione spontanea ed umorale. Come se non bastasse, l’avventura discografica italiana del sopranista era passata anche attraverso due album basati su un free form espanso, Steve Lacy Sextet e Flakes incisi nel maggio 1974 negli studi romani della RCA, con Steve Potts sax alto, Michael Smith piano e organo, Irene Aebi (moglie di Lacy) violoncello, Kent Carter basso, Kenny Tyler batteria. L’alterità strumentale rispetto a Monk costituì per Lacy una forma di sicurezza che gli consentiva di evitare qualsiasi tipo di confronto con il suo ispiratore: se avesse

Ancora Steve Lacy, in un’iconica immagine nella quale sembra insegnare l’importanza del sax soprano nel jazz.

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