GrooveBack Magazine 004

suonato il pianoforte sarebbero subentrate ben altre valutazioni critiche e confronti, solitamente non graditi ai musicisti di ogni ordine e grado. La diversità strumentale faceva di Steve Lacy un unicum . A differenza di molti illustri jazzisti non suonava altri tipi di sassofono, se non il soprano. Inoltre, per sbarcare il lunario Lacy fece innumerevoli mestieri come il commesso in vari negozi di libri e dischi. Specie quando gli ingaggi non arrivavano, non sempre egli si mostrava disposto a svendersi per una sessione qualsiasi, se il progetto non era di suo gradimento. In genere amava leggere e frequentare le mostre di pittura, soprattutto quando il tempo e il denaro glielo consentivano. Negli anni ha sempre insistito sulla dimensione letteraria del suo lavoro, incorporando testi di romanzieri, poeti e filosofi, oltre a suggestioni di arte visiva e danza sperimentale. Tra i tanti autori e pittori, Thomas Mann e Paul Klee ebbero sempre un posto di rilievo nella sua formazione culturale, mentre sul versante musicale le sue dichiarate influenze furono, oltre a Thelonious Monk, Louis Armstrong, Duke Ellington, Ben Webster, Lester Young, Charlie Parker, Miles Davis, Johnny Hodges, Sonny Rollins, Milt Jackson e Art Blakey. Alla fine degli anni Sessanta, gli USA non sembravano più essere un terreno fertile per molti musicisti della grande epopea del bop , soprattutto suonare jazz era diventato un affare poco proficuo, così in tanti avevano preferito trasferirsi armi e bagagli in Europa, dove trovarono calda accoglienza e un tenore di vita dignitoso e proporzionato al loro talento. La scena europea e la creativa atmosfera che vi si respirava tutt’intorno finirono per diventare più attraenti per molti jazzisti che trascorsero parte della loro vita nel vecchio continente: tra i tanti ci fu anche Steve Lacy, che approdò a Parigi nel 1969. Nella capitale francese, il sopranista, insieme con Mal Waldron, registrò Journey Without End presso gli Studios Europa Sonor il 30 novembre 1971 e pubblicato l’anno seguente in Giappone. Durante il set in studio i due si avvalsero di un’eccellente sezione ritmica: Kent Carter al basso e Noel McGhie alla batteria, registrando in quartetto cinque composizioni, due di Waldron sul lato A e tre di Lacy sul lato B. L’album mette in luce le personalità contrastanti e quasi antitetiche dei due protagonisti: il

sax soprano in libera uscita è comunque tenuto a bada e incorniciato da un pianoforte lunatico, oscuro e sognante, sebbene il sassofonista riesca a caratterizzarsi meglio, distillando un costrutto sonoro più attinente al suo stile. Due composizioni di Lacy, I Feel A Draft e Bone , presentate per la prima volta in questo set, rappresentano certamente i momenti più riusciti del disco. Il pianoforte di Waldron imprime la sua anima fra i solchi con il supporto di un’ottima retroguardia, ma sono gli assoli di sax liberi e volanti di Lacy a trascinare l’ensemble. Per contro, il lato A, che contiene le composizioni di Waldron, risulta al primo impatto più scorrevole, mentre i brani a firma Lacy, sulla B side , appaiono più complessi ed astratti. È indubbio che il sodalizio tra Mal Waldron e Steve Lacy sia stato uno dei momenti più esaltanti della storia del post-bop , eppure i due, a parte una ristretta cerchia di cultori, sembrerebbero aver sempre operato in clandestinità con lo status di eroi non celebrati o poco compresi dalla massa. Responsabilità che vanno spesso attribuite ai media, di certo, non a quello zoccolo duro di cultori, che con la loro costanza e dedizione ne hanno comunque certificano la durata nel tempo e garantito l’ottenimento di una sorta di passaporto per l’accesso privilegiato a una zona franca del jazz non perimetrabile. Questo tandem fu un unicum , soprattutto per il modulo espressivo scelto e la qualità della proposta, assolutamente di prim’ordine. In One-Upmanship del 1977 Waldron e Lacy sono affiancati da tre musicisti con una predisposizione a sfuggire al lato più convenzionale del mainstream : il trombettista Manfred Schoof, il bassista Jimmy Woode e il batterista Makaya Ntshoko. L’apporto di ciascuno di essi in One-Upmanship , insieme con le progressioni di Waldron e la genialità di Lacy, crea una frattura definitiva con certe atmosfere del passato attraverso un concept segnato da un interplay dinamico e proiettato verso il futuro. Rispetto al modulo operato negli anni Cinquanta, come pianista di Billie Holiday e nelle sue registrazioni al libro paga di John Coltrane ed Eric Dolphy, lo stile pianistico di Waldron appare più maturo ed evoluto in una forma compatta, altamente narrativa in senso melodico, tanto da farne uno dei migliori pianisti della storia. Tesi purtroppo non avallata da molti critici e studiosi a vario titolo che gli hanno sempre contestato una carenza di espressività melodica, che in questo album Waldron confuta e ribalta attraverso vari momenti che ne illustrano ampiamente l’abilità, sebbene la complicità di Lacy risulti essenziale. In questo album, Lacy suona con una ponderata moderazione emotiva avvolta in un virtuosismo mozzafiato, oppure pescando nella sua estesa gamma all’interno dei registri superiori con assoli fluenti verso l’estremità opposta dello spettro sonoro collettivo; ciò crea un piacevole contrasto con Waldron, il quale sviluppa un effetto ipnotico in fase di costruzione, aggiungendo un forte dinamismo alla tensione d’insieme. Lacy ha frequentato più volte Don Cherry con cui realizzò in comproprietà uno splendido album, Evidence , pubblicato dalla Prestige. Il tandem direttivo rielaborò gli immancabili brani di Thelonious Monk, ad eccezione di The Mistery Song di Ellington e di uno standard di Billy Strayhorn. Già un album, composto quasi esclusivamente da brani di Monk ed Ellington, parte con un punteggio molto alto. Registrato il 1° novembre 1961 al Van Gelder Studio, in Evidence di Steve Lacy with Don Cherry entrarono a far parte del line-up , oltre a Lacy, due membri del quartetto di Ornette Coleman, il batterista

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