GrooveBack Magazine 004

Il problema di Tosca, a livello dischi, sta proprio nei due protagonisti, e cominciò già nel lontano 1938 con l’edizione Voce del padrone basata sul timbro di Beniamino Gigli, ma resa assurda dal piglio dannunziano di Maria Caniglia. Una dozzina d’anni dopo, un’altra virago, Adriana Guerrini, si trovò perdipiù accanto il più inespressivo tenore del nostro melodramma, Gianni Poggi. Un anno ancora e inizia il lungo regno di Renata Tebaldi, due volte protagonista delle registrazioni Decca, nel 1951 e nel 1958, entrambe le volte irraggiungibile, ma limitata dai partner: la prima volta dall’accademica temperatura di Giuseppe Campora; la seconda, da un Mario Del Monaco splendido ma eccessivamente oratorio. Con Maria Callas la vicenda si inverte: l’anello debole - nonostante la canonizzazione - è proprio lei: totalmente priva dei due attributi fondamentali di Tosca: l’ingenuità e la sensualità. Potrà pur essere tragica nel senso consacrato della tragediènne , ma laddove manca l’erotismo manca letteralmente la carnalità di Tosca: si emigra nel mito, buono per Medea e Norma ma non per una placida cantatrice che come massimo della vita sospira “la nostra casetta” e nel cuore del dramma prega la Madonna e crede sulla parola a un criminale come Scarpia. Poco male, tuttavia. Ci sono comunque buone edizioni che riescono a equilibrare questo scompenso interpretativo: la RCA del 1956 con Milanov e Björling; un’altra RCA del 1972 con Price e Domingo; la Emi del 1980 con Scotto e Domingo, ma sostanzialmente è nelle due produzioni del 1956 e 1962 di cui si riproducono le copertine, che si assesta miracolosamente il cast discografico di quest’opera. Nell’edizione Emi del 1980 il dominio sta nella visione di Levine, nell’immedesimazione della Scotto, il cui dominio interpretativo è inoppugnabile, e nel calore appassionato di Domingo. La produzione Cetra del 1956 è oggi invece quasi sconosciuta ma rappresenta l’edizione meglio cantata in italiano che la discografia conosca. Gigliola Frazzoni, soprano di solida modernità negli anni Cinquanta, con una tendenza scoperta alla drammaticità più incisiva, incarna Tosca senza rifarsi a nessuna tradizione verista, senza accaldamenti da virago, mentre Tagliavini, tra sdegni e dolcezze, è forse il Cavaradossi che Puccini aveva sognato.

L’edizione di riferimento che domina la discografia di Butterfly è la Decca 1974 con Karajan, Freni e Pavarotti. Basterebbero dunque i nomi a offrire la garanzia di un prodotto di altissimo rilievo. Ma è vero: ossia, l’interpretazione di Karajan è quella che più si attaglia al mondo di Cio-Cio-San? Se l’idea che ci si è fatta di quest’opera è quella di un grandioso, decadente e sfinito quadro esotico dentro cui si muove una bambola di porcellana dalla voce più bella del mondo, questa di Karajan è la Madama Butterfly per eccellenza. La protagonista di quest’opera, però, che nella versione originale (prima cioè che Puccini la rifacesse il parte) esprimeva un lato polemico del carattere unito a una personalità ben incisa. L’unica interprete che a mio giudizio dia dignità a questo personaggio che l’ha perduta, è Clara Petrella, un soprano oggi poco noto, che incise generalmente per Cetra. L’edizione a cui faccio riferimento, per quanto negletta e spesso non facile da reperire, media dunque quel primitivo profilo rispettabile e orgoglioso della protagonista, vittima, sì, ma non ottusa; innamorata, sì, ma non cieca; affidata al canto ma anche alla forza persuasiva di un accento a tratti acuminato. La Petrella, fortunatamente, è poi affiancata da un Taddei ancora una volta sommo per amarezza e disincanto e da un Tagliavini convenzionale ma capace di tenerezze toccanti che un po’ mitigano la stupidità universale di Pinkerton. L’orchestra, tagliata in bianconero e dal fraseggio mordente, trova in Angelo Questa un direttore che opta decisamente per il lato moderno e antisentimentale di Puccini. Per chi invece volesse restare all’idea di una Butterfly moderatamente esotica, fedele ai valori di un bel canto non fine a se stesso ma predominante, difficilmente potrà evitare l’edizione Decca del 1958, letteralmente impregnata dal magistero espressivo e coloristico di Renata Tebaldi e Carlo Bergonzi. Extra Nilsson nulla salus , verrebbe da dire scorrendo le protagoniste delle nove produzioni realizzate in studio di Turandot dagli anni Trenta agli anni Ottanta. Fatta salva Gina Cigna, protagonista della prima incisione Cetra del 1938, quelle nove produzioni annoverano infatti un solo soprano italiano, Katia Ricciarelli, che col viatico di Karajan affrontò Turandot soccombendo tragicamente. Le altre sono tutte straniere, tra cui le due più illustri, Inge Borkh e Birgit Nilsson, prestateci dai drammi wagneriani, con l’aggiunta mirabolante di Maria Callas, Montserrat Caballé e Joan Sutherland, cantanti negate a questo ruolo non solo dalle difficoltà vocali ma soprattutto dalla caratura psicologica di un personaggio in bilico tra ferocia espressiva e siderale astrattezza, laddove la Callas perisce pateticamente sgretolata dall’impervia scrittura pucciniana, la Caballé decomponendosi da se stessa sotto l’effetto del proprio edonismo, e la Sutherland affogando nei nonsense con cui ha nutrito il novantanove per cento delle eroine del melodramma italiano. Tanto accadde col ruolo di Turandot nelle edizioni celebrate di alcune tra le maggiori etichette discografiche. In tal modo Turandot, almeno nel secolo XX, resta lei: Birgit Nilsson, la grande cantante svedese capace di alternare Brunilde, Elettra e Turandot in un mese, e di uscirne come se fosse stata in vacanza. Una potenza della natura, una privilegiata, senza dubbio: ma anche un’interprete di rara grandezza e profondità, tra l’altro capace di recitare perfettamente in due lingue non sue. Turandot l’ha avuta in repertorio per un quarto di secolo, e l’ha cantata con diversi tenori, ma il proprio ideale partner lo ha avuto essenzialmente in Franco Corelli, come lei dotato di strapotenti mezzi e di

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