questo il vero “miracolo” de Il cantante al microfono , quello cioè della felice fusione tra due rilevanti personalità artistiche senza che l’’interprete di oggi, Finardi appunto, sia sceso a compromessi con la sua autenticità. Non un’assoluta novità per il cantautore meneghino la poetica di Vysotskij, giacché nel 1993, nell’album tributo Il volo di Volodja , contenente brani del cantautore russo tradotti, riarrangiati ed eseguiti da un gruppo di artisti, lui aveva già dato il suo contributo con la canzone Dal fronte non è più tornato e Il canto della terra (questa in compagnia dell’attrice Marina Vlady, la sua terza moglie). Sarebbe ingiusto a questo punto, però, non citare il fondamentale contributo del gruppo cameristico Sentieri selvaggi, che in questa registrazione emerge in tutto il suo valore, sottile alchimista impegnato nell’espansione dell’armonia e nella moltiplicazioni delle voci strumentali, con il risultato di un notevole ampliamento prospettico rispetto alla nuda chitarra di accompagnamento del cantautore moscovita. Un apporto che riveste i brani di maggior autorevolezza e profondità espressiva, anelando a un rapporto paritario tra la musica e la poesia. Ad assolvere al prezioso compito di trascrizione delle canzoni per voce ed ensemble è stato Filippo del Corno. Il carisma e l’intenso timbro vocale di Eugenio Finardi hanno poi fatto il resto, in un percorso non agevole né tantomeno sbrigativo, caratterizzato da una fase di prima sperimentazione su alcune canzoni e dei concerti di prova con il gruppo. Progetto di largo respiro, va da sé che non ha potuto limitarsi al solo disco, allargandosi anche all’ambito delle esibizioni dal vivo con una tournée di eventi che ha fatto tappa al Festival della letteratura di Mantova, a Roma, a Milano e in alcuni teatri svizzeri. La profonda voce di Finardi carica di urgente drammaticità questi brani, ne esalta le dinamiche che oscillano tra un arrovellato esistenzialismo e momenti di schietta, forse amara, ironia (come in Ginnastica ). Nella loro versione originale queste canzoni sono accompagnate da una musica che forse non ha dignità di comprimaria delle potenti emozioni accese dalle liriche, queste sì le vere protagoniste, anche se nel suo serrato procedere contribuisce non poco a creare un clima di angoscia, che in altri momenti trova il suo reverse in una sapida ironia. Su tutto si avverte la pressione di un incessante movimento: nulla è fermo, statico in queste canzoni, ma ognuna ha una grande mobilità, in molte si manifesta l’urgenza di fuggire, di scappare da qualcosa di triste, avverso e buio. Se cercate un ascolto distensivo lasciate perdere quest’album. Ogni canzone, nessuna esclusa, è foriera di una tensione imperiosa e costante: immaginate la marcia di un soldato che si avvia verso una guerra che non sa se sarà gloriosa o esiziale per lui, o un individuo tallonato da un animale che non lo lascia nemmeno respirare. La cocente umanità di cui è intrisa ogni poesia trova a mio parere dei larvati (ma neanche tanto) riscontri in certa letteratura mahleriana, in cui il grande sinfonista tardoromantico accolse sotto le sue gigantesche ali le ragioni degli sconfitti dalla vita e dalla storia. Nel verso Sembro in vetrina e sto su una rotaia c’è la discrasia tra ciò che appare al pubblico e la condizione interiore dell’artista; l’impietosa “obiettività” dei mezzi tecnici: È che al microfono io faccio pietà. La mia voce può provocare orrore e alla prima stecca che farà quella carogna amplifica l’errore ; l’insofferenza verso una ribalta che provoca fastidio
e disagio: Mi soffoca e mi opprime la ribalta. Il riflettore preme e poi mi assalta. Con questa luce che mi acceca già. Che caldo fa, che fa, che fa . In quest’album la poesia arriva diretta al cuore come una penetrante, scintillante lama d’acciaio, non è una poesia di regime o un’arte “borghese”, come ebbe a definirla il grande Carmelo Bene, ma il suo esatto opposto. Si rivela nuda e cruda, non nascondendosi mai dietro ammorbidimenti o imbellettamenti di sorta. Ancora una volta vi invito ad ascoltare l’originale, quel Vladimir Vysotskij dalla voce tagliente che si offre senza schermo alcuno agli altri. Questo Eugenio Finardi e il gruppo Sentieri selvaggi lo ha capito molto bene e, di riflesso, lo fa comprendere bene anche a noi che ascoltiamo quest’album capolavoro. Citando le stesse parole di Eugenio Finardi, da lui profferite nel corso di una recente intervista, ci troviamo in presenza di una musica «Senza tempo ma con una precisa collocazione geografica e un profondo senso della storia, testimone della musicalità di un personaggio straordinario. Un progetto che rappresenta un felice connubio tra la musica contemporanea e una popolare molto poco complessa ma profonda a livello di contenuti e interpretazione». Una sorta di macchina del tempo molto particolare, che trasporta nella Russia anni Ottanta, assiemando una dolorosa contingenza temporale con principii umani di eterna validità.
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