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IO SONO FRANCESCO M I C H E L A P E D E R S I N I

A ssociazione S clerosi L aterale A miotrofica della S vizzera I taliana

ASLASI Via della Posta 26 6934 Bioggio Telefono: +41 (0)78 245 89 24 aslasi@bluewin.ch www.aslasi.ch Facebook: https://www.facebook.com/Aslasi- associazione-no-profit-102934332129683/ Instagram: https://www.instagram.com/aslasi.ch/

© Copyright 2022 by ASLASI. Tutti i diritti riservati. Prima edizione: maggio 2022.

A Francesco e a tutte le Persone che hanno accompagnato ASLASI in questi anni.

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P REFAZIONE Conobbi Francesco in un’occasione particolare. Lo in - contrai, per la prima volta, durante una delle settimane di vacanza sul Lago Maggiore che organizziamo – ogni anno – per il gruppo di pazienti affetti da SLA. Sin da su- bito, di lui mi colpirono il sorriso, la vitalità e, non da ul- timo, la sua grande forza. L’ultima volta che ci siamo incontrati tutti in sieme – nel solco di questo appuntamento conviviale – è stata du- rante lo scorso mese di agosto 2021. In quell’occa sione, abbiamo condiviso una splendida parentesi di «tempo tutto da vivere» in compagnia di persone che, come lui, nutrivano un forte amore per la vita. Quelle giornate vissute tra sole, gite, buon cibo e tanta allegria sono state la cornice perfetta entro la quale di- pingere i migliori momenti vissuti. Quel nostro modo di «stare insieme» dava un senso ad una quotidianità altri- menti segnata da fisioterapia, medici, controlli e tante cure per le quali è sempre necessario tanto tempo. Durante quella settimana, però, tutte quelle attività non erano il fulcro attorno al quale ruotavano le nostre ore trascorse insieme. Al contrario, ci siamo lasciati cul- lare un po’ dalla spensieratezza, senza che i pensieri ra- zionali si impadronissero di ogn’istante. Ognuno di noi, a modo suo, si è goduto quel particolar e momento .

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Oggi, purtroppo, Francesco non è più con noi: ci ha la- sciati lo scorso mese di ottobre 2021. Ciò, però, non ci im- pedisce di ricordarne l’esempio, raccontando la sua vita attraverso gli occhi e le parole di Francesca, la donna che ha condiviso con lui tutti quegli anni. Sin dal momento in cui si sono conosciuti, passando per il loro modo di viversi e cercarsi, non mancheremo di vedere come hanno affrontato il duro cammino im- posto loro da questa terribile malattia che, se possibile, li ha uniti ancor di più. È un vissuto in cui emerge l’esempio di chi si è do vuto reinventare da un giorno all’altro: ma non solo. Oltre alla malattia, infatti, Francesco e la sua famiglia si sono do- vuti confrontare con l’esigenza di costruire una rete di sostegno, affrontare la burocrazia, cercare i mezzi ausi- liari, rapportarsi con gli assistenti sociali e individuare delle soluzioni per rendere l’am biente domestico più congeniale alle nuove neces sità. L’augurio fi nale è che questo breve libro possa essere aiuto a tante persone. A te, Francesco, e a tutti voi… Buona lettura !

Michela Pedersini Presidente ASLASI

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I PRIMI ANNI DELLA MIA VITA Ciao a tutti: il mio nome è Francesco e son venuto alla luce il 24 febbraio 1960, all’ospedale di Palermo . Il parto – per mia mamma – è stato segnato da alcune difficoltà: ma poi le cose sono andate bene e, fino a tre anni e mezzo di età, ho vissuto a Chiusa Sclafani, nella mia amata Sicilia . Poi, con tutta la famiglia, ci siamo trasferiti in Svizzera – in prossimità della città di Sciaffusa. Sono cresciuto con altre tre sorelle – più grandi di me – che mi hanno lette- ralmente coccolato. Gli anni sono trascorsi senza quasi che me ne accorgessi e, dopo aver imparato il tedesco e portato a termine le scuole, ho appreso un mestiere.  Come se fossi stato catapultato come per magia nel fu- turo, nel corso dell’ estate del 1986 ho fatto un incontro che mi ha cambiato la vita: quello con Francesca, la donna che è poi diventata mia moglie. Dopo esser stati fidanzati per due anni, abbiamo de- ciso di sposarci. Le nostre nozze, però, ci hanno riservato una sorpresa sin dal viaggio della luna di miele. All’aero - porto, infatti, un «piccolissimo problema» ha scombi- nato i nostri piani: a causa di un inspiegabile disguido, ci hanno assegnato dei posti a sedere di stanti l’uno dall’al - tra.

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Ricordo ancora oggi qual è stata la reazione di France- sca: tutta la sua rabbia per l’inconveniente è esplosa nel momento in cui ci siamo imbarcati sul l’aereo. La sua ira non è durata però a lungo. La coppia seduta vicino a lei, infatti, l ’ha intrattenuta in una lunga e piace- vole conversazione che ha dato il via ad una bella amici- zia, che è proseguita per tutta la vacanza. Al rientro, an- cora una volta, si è manifestato il problema dei posti di- stanti: e pure in quell’occasione, Francesca si è intratte- nuta con questa coppia. I L TRASFERIMENTO IN T ICINO Qualche anno più tardi, ci siamo trasferiti in Ticino. La vita è tornata a scorrere come di consueto, tra g l’im pe- gni quotidiani e la vita familiare. Tra il lavoro, le vacanze e la vita di tutti i giorni siamo giunti ad uno dei più bei momenti: nel 1998, dopo dieci anni di matrimonio, è nato nostro figlio Carmelo. Le giornate, con la nascita del nostro frugoletto, d’improvviso si sono trasformate in qualcosa di ancor più coinvolgente.  Nel 2012, raggiunti i 52 anni di età, mi son lasciato con- vincere – non senza qualche resistenza – a partecipare ad un corso di danza latino-americana. Non ero molto interessato a dedicarmi a questo passatempo, tuttavia, assecondai Francesca in questo intento.

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Tuttavia, dopo qualche sessione di ballo, si mani- festò un fastidioso incon- veniente: senza che riu- scissi a capirne il motivo, infatti, soffrivo di mal di schiena. Questa proble- matica diventò, con il tra- scorrere del tempo, il mo- tivo di un piccolo contra- sto conmiamoglie: lei, in- fatti, pensava che io esa-

Con mia moglie Francesca.

gerassi la cosa. Non vedendomi completamente con- vinto dall’idea di cimen tarmi in acrobazie latino-ameri- cane, infatti, credeva che il mal di schiena fosse soltanto un pretesto.  Pian piano, però, questi dolori si sono fatti più persistenti e fastidiosi. Vicino casa, mi dedicavo alla coltivazione di alcuni ortaggi in un piccolo appezzamento di terra. Ep- pure, mi sembrava come se occuparmene fosse diven- tato tutto d’un tratto fin troppo faticoso. Tuttavia, non era da me accusare tutta questa stanchezza e anche questi dolori alla schiena erano inspiegabili.

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I « PICCOLI PROBLEMI » SI MOLTIPLICANO Nel 2013, la mano destra ha cominciato a darmi sempre più problemi: mi sembrava come intorpidita da una de- bolezza inspiegabile. Faticavo letteralmente ad afferrare le cose. A quel punto, il medico mi ha prescritto una serie di terapie: al termine di quelle cure, siamo andati in ferie. Al rientro dalle vacanze, un altro episodio ha suscitato qualche perplessità in più sul mio stato di salute.  Ogni anno, come da tradizione, eravamo soliti preparare la salsa di pomodoro: era come ritrovare, alla conclu- sione dell’estate, il legame con la terra natia. Dopo aver preparato la conserva, l’abbiamo sistemata in cantina per partire poi alla volta di Sciaffusa, dove abbiamo tra- scors o alcuni giorni. In quell’occa sione, eravamo stati in- vitati a festeggiare un compleanno. Alcuni giorni più tardi, al rientro a casa, appena ab- biamo aperto il garage siamo stati investiti da un pes- simo odore, proveniente proprio dalla cantina. Appena entrato, mi son accorto che i trenta litri di salsa in botti- glia se n’erano andati a male. Questo inconveniente si era verificato perché non ero riuscito a stringere bene i tappi, senza che mi rendessi conto di questo mi errore. Questo «incidente» mi convinse definitivamente che era giunta l’ora di prendere una decisione: sot topormi

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alla visita da parte di uno specialista. A quel tempo, in- fatti, io credevo di soffrire semplicemente della sin- drome del tunnel carpale. Il medico che mi ha visitato, però, sembrava aver compreso immediatamente quale fosse il mio problema e mi ha fissato un appuntamento da un neurologo a Lugano. Dopo una serie di accertamenti, il suo suggerimento è stato quello di sottopormi ad una terapia antibiotica mensile, somministrata tramite una serie di iniezioni per via endovenosa. Sulle prime, devo ammettere di non aver ben compreso a che cosa servisse questa cura: ma ho deciso di seguire il suo consiglio. Il medico mi ha chiesto quale fosse il momento migliore per dare il via al trattamento sanitario, perché le iniezioni erano su base quotidiana – senza interruzioni – per la durata di un mese. Essendo ormai giunta la fine del mese di ottobre ed avendo degli impegni per novembre e dicembre, non desideravo rinunciare alla serenità del periodo festivo e così il trattamento è stato programmato per il mese di gennaio 2014. Del resto, anche il medico di famiglia mi aveva detto che, per il trattamento della malattia, mi sarei dovuto sottoporre – una volta al mese – a un’iniezione presso l’ospedale. Ma ancora una volta, mi era chiaro a quale

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malattia si riferisse. Solo in seguito, mi ha detto che so- spettava che soffrissi di sclerosi multipla. In quel momento, ho dato il via alla terapia antibiotica: ogni sera, a casa, veniva un’infermiera che mi sot topo- neva alle iniezioni. L’esperienza, però, non è stata delle migliori. In seguito, ho deciso di rivolgermi ad un servizio differente da quello che era stato inizialmente indivi- duato. Una volta terminata la cura, è arrivato il tempo di par- tire per la settimana bianca: e così, abbiamo raggiunto la località di Celerina, vicino a Saint Moritz. Abbiamo sempre amato i Grigioni, il bianco delle sue vette: con i suoi panorami splendidi, questo Cantone ci ha rapito il cuore. Entrambi amavamo sciare e, quindi, non poteva es- serci un’occasione migliore per rilassarci : con Francesca e la famiglia di sua sorella, abbiamo trascorso una bella settimana di vacanza. I primi giorni, seppure a fatica, sono riuscito a godermi le giornate sugli sci. Le mani, però, mi diventavano subito fredde e finivano per do- lermi parecchio. Francesca, dal canto suo, si infortunò il ginocchio e, così, la nostra avventura sciistica si concluse abbastanza rapidamente. In quei giorni, non me la sentivo di andare sulle piste e, così, ho appeso gli sci al chiodo e ho tra-

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scorso il resto della settimana senza stressare ulterior- mente le mani a causa del freddo. Al rientro a casa, il medico curante avrebbe poi preso contatto con noi, per un ulteriore approfondimento sul mio stato di salute. U NA NUOVA E SCONVOLGENTE DIAGNOSI L’11 marzo ho incontrato infine il medico. Nel mio paese, Agno, questa giornata è allietata da una splendida fiera, durante la quale si festeggia il compatrono della chiesa. Attorno a me, quel giorno, c’era tutta l’at mosfera festosa delle bancarelle, degli animali e delle giostre animate da bambini felici, che si concedevano i tradizionali tortelli dolci. Giunti allo studio medico, non sapevo che ad atten- derci ci fosse una diagnosi ben differente da quella che ci aspettavamo Francesca ed io. Il medico, infatti, ha chiarito che non soffrivo della malattia di cui sospettava inizialmente: si trattava, piuttosto, del primo motoneu- rone . «Un gruppo di patologie neurologiche che afflig- gono selettivamente i soli motoneuroni.» Per noi era qualcosa di incomprensibile. Il medico, dopo aver guardato mia moglie e me negli occhi, si è ri- volto a Francesca, dicendole: «Signora, forse lei la cono- sce meglio come SLA.» In quell’esatto istante, ho visto mia moglie impalli dire. Appassionata di calcio, le è subito venuta in mente la vi-

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cenda di Stefano Borgonuovo, il calciatore deceduto proprio in seguito a questa malattia. Ricordo che ci è caduto il mondo addosso.  Appena rientrati a casa, Francesca ha parlato con la so- rella: pure lui stentava, sulle prime, a credere a quella diagnosi infausta. Data la natura complessa della patologia, però, ab- biamo preso subito una decisione: non ci saremmo limi- tati ad un solo parere medico. Così, ci siamo rivolti ad una neurologa – attiva anche in diversi ospedali – che si occupa della cura dei malati affetti da malattie geneti- che rare, tra le quali, anche la SLA. Con l’aiuto di nostro nipote, per avere un qua dro cli- nico delineato con più certezza, abbiamo organizzato un controllo a Novara, presso lo studio di una neurologa specializzata invitata anche ad una serata informativa organizzata dall’associazione ASLASI. Dopo aver consultato la documentazione ed avermi sottoposto alla visita, la dottoressa non ha esitato nel confermare la diagnosi. La neurologa organizzò una nuova serie di esami per comprendere meglio quali fossero le mie condizioni di salute, consigliandomi peraltro di interrompere la mia attività lavorativa. Per me, questa richiesta non era asso- lutamente accettabile: il lavoro era una parte fonda-

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mentale della mia quotidianità. Mi trasmetteva quella sensazione di libertà e di autonomia alla quale non sa- rebbe mai stato facile rinunciare. I L LENTO E SOFFERTO ADDIO AL LAVORO Il mio lavoro mi regalava non poche soddisfazioni. Ero un rappresentante di vernici e riuscivo ancora a guidare l’auto: così, in quel momento, ho deciso che non avrei smesso di dedicarmi alla mia attività professionale. La mano non era ancora diventata un ostacolo insormon- tabile nella mia quotidianità. Per aiutarmi a sopportare meglio i dolori, la dottoressa mi prescrisse un farmaco da assumere in gocce. Il ri- corso all’uso di questa medicina era stato autorizzato a livello cantonale. Poi, dei crampi alle gambe cominciarono a manife- starsi durante la notte, disturbando il mio riposo. Con il trascorrere del tempo, anche il semplice gesto di allacciarmi i bottoni della camicia divenne qualcosa di faticoso.  Esattamente a distanza di un anno, il mio stato di salute si è aggravato al punto tale da obbligarmi a prendermi una pausa dalla quotidianità. Il direttore del reparto vendite è venuto a casa mia, per parlarmi in modo schietto. Venendo piuttosto breve- mente al dunque, mi ha fatto notare che «era diventato

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difficile gestire la situazione» e ha aggiunto che «se mi fosse successo qualcosa, i disagi per l’azienda per la quale lavoravo sarebbero stati gravi.» Nel mese di maggio del 2015, miomalgrado, ho dovuto abbandonare il lavoro. In quel momento, mi è anche toccato restituire la patente. Mi è sempre piaciuto gui- dare l’auto e, quella rinuncia improvvisa, se possibile, ha

complicato ulteriormente le cose. L’ APPROCCIO ALLA MALATTIA

Ricordo di non aver mai parlato molto della mia malat- tia. Solo una volta, a mia moglie, ho confidato di aver na- vigato sul web per documentarmi. Non mi sono spinto molto a fondo, però: ad un certo punto, ho smesso di leggere le informazioni. Il decorso della SLA, infine, mi è stato molto più chiaro dopo esser stato sottoposto alla tracheostomia. Ho però un pessimo ricordo, di quel periodo, associato ad una visita medica. A causa dei problemi respiratori, ho consultato un dottore che è stato capace di causare in me un vero trauma. Questo medico, infatti, mi ha detto – senza tanti ri- guardi – che dopo l’intervento della tracheostomia sa rei dovuto andare a «vivere in un istituto». Ho trovato quel suomodo di approcciarsi ad unmalato veramente sconvolgente. Un paziente, del resto, si affida alle cure ed alla sensibilità di unmedico. Sentendosi dire

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certe cose, finisce per esserne colpito in maniera impor- tante. Anche una persona senza un tale problema di sa- lute, secondo me, sarebbe sconvolta da quelle parole. Ricordo che Francesca si è arrabbiata al punto tale da richiamare lo studio per riferire al medico che non si sa- rebbero dovuti mai più permettere di ripetere afferma- zioni di quel genere. A volte, trovo persone – come me – che rimangono sconvolte da affermazioni di tenore paragonabile a quelle di quel medico. Quelle frasi, infatti, sono spesso pronunciate senza considerazione per l’essere umano. Non siamo, tutti noi, dei protocolli: non siamo delle «diagnosi», bensì, siamo persone. Io ci sono stato tanto male, a causa di quel modo di porsi nei miei confronti. La fragilità umana, la dignità del paziente e i diritti sono qualcosa di cui, noi malati, non potremomai essere privati. Chi è chiamato ad occuparsi di chi sta male, do- vrebbe ben comprendere questo aspetto mentre si de- dica a quella che dovrebbe essere «la missione di curare il paziente». Forse anche a causa di questo episodio, non ho mai parlato con nessuno di ciò che pensavo fosse la mia ma- lattia. L E TERAPIE E LE DIFFICOLTÀ Dopo questa parentesi infelice, vorrei tornare a parlare di un momento che ha segnato in maniera importante

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la mia vita: quello del giorno in cui ho dovuto restituire la patente. Per me, è stato un episodiomolto difficile da elaborare: questo, perché ho capito – in quell’istante – che non ero più in grado di guidare e che le mie condizioni di salute erano peggiorate. Le mie giornate, del resto, erano ormai scandite da at- tività quotidiane ben prestabilite: tanta fisioterapia, quindi ergoterapia e, infine, logopedia. Purtroppo, senza alcun preavviso, la cassa malati ha pure smesso di rim- borsare i costi per l’ergoterapia, giacché secondo l’as si- curazione non vi era la necessità di seguire questo trat- tamento medico. Nemmeno le lettere della neurologa sono state prese in considerazione, da parte della cassa malati, perché modificassero questa loro presa di posi- zione. Questo nuovo corso degli eventi mi ha spinto a chie- dere a mia moglie di acquistare delle speciali palline per esercitare la mano. Tuttavia, questo «rimedio» non era certamente sufficiente a colmare le lacune causate dal repentino addio all’ergoterapia. Il trattamento me dico, inoltre, avveniva a domicilio: un aspetto di importanza non trascurabile, considerando che mi permetteva di non dover organizzare tutti gli spostamenti del caso. 

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L’abbandono del l'ergoterapia ha avuto come conse- guenza diretta un netto peggioramento delle abilità nell’uso quotidiano della mano destra. Francesca, però, non perd eva mai un’occasione per ri - cordarmi un aspetto fondamentale. La malattia non po- teva scomparire da un giorno all’altro, non pote vamo farci nulla. In quel momento, però, mi ha detto che «pos- siamo lottare» e che l’avremmo fatto insieme. Nostro figlio Carmelo, allora, aveva sedici anni: era all’ultimo anno di liceo ed aveva bisogno di noi. Anche per lui, non potevamo assolutamente mollare la nostra lotta quotidiana. Francesca, in quel momento, è andata anche a parlare con il direttore della scuola. In que ll’occasione, ha voluto avvisare la scuola che se nostro figlio avesse avuto un rendimento altalenante negli studi, la causa sarebbe stata da ricercare nella mia malattia. La notizia che ero malato di SLA, infatti, lo aveva letteralmente sconvolto. L A MOTIVAZIONE A LOTTARE La determinazione a non mollare mai la presa in quella dura lotta contro lamalattiami è venuta da diverse parti. In primo luogo, sapevo benissimo che la mia famiglia aveva bisogno di me: Carmelo e Francesca non pote- vano fare a meno del mio appoggio. La presenza co- stante e la vicinanza dei parenti hanno fatto la diffe-

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renza, dandomi la forza di reagire anche quando – lo am- metto – mi sarei lasciato andare. Le persone che desideravano starmi accanto, farmi compagnia, aiutarmi o, anche semplicemente, spin- germi ad evadere dai pensieri quotidiani – che altri- menti mi avrebbero sopraffatto – sono state molte. Anche il fatto di riuscire ancora a camminare, mi ha si- curamente stimolato a continuare quella dura guerra contro la SLA. Ho imparato, in quel periodo, ad utilizzare il deambulatore e Francesca mi accom pagnava un po’ ovunque. Non ero sicuramente un grande cammina- tore, ma concedermi una breve passeggiata quotidiana sotto casa mi regalava delle sensazioni piacevoli. Il luogo prescelto per quei momenti di relax è una ro- tonda che si trova poco distante da casa nostra. Posta in una posizione che le permette di circondare le abitazioni collocate a breve distanza dalla stessa, la rotonda era – ed è – un punto di ritrovo con gli altri condòmini e gli amici. Raggiungere praticamente ogni giorno quello spazio, per me, è stato un invito a mantenere un certo livello di autonomia. Di pomeriggio, uscivo da casa e, con calma, mi dedicavo a quel giro. D’altro canto, le abitudini che si erano consolidate nel tempo, non le abbiamo mai cambiate: le ferie, la prepa- razione della salsa di pomodoro e i festeggiamenti per

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le diverse ricorrenze sono sempre stati parte integrante della vita familiare. Ho cercato, con tutte le forze, di mantenere una «quo- tidianità extra malattia»: ero io a decidere quando fer- marmi, non certo la SLA. Nei momenti in cui la patologia riusciva a prendere il sopravvento, però, mi riposavo: così facendo, recuperavo le forze per continuare – in seguito – a vivere la mia vita. A questo proposito, ci tengo a sottolineare che non ho mai «subito» la malattia: camminavamo l’uno a fianco dell’altra. In alcune occasioni, vinceva lei: ma per il resto del tempo, ero io a dettare i ritmi e le consuetudini quo- tidiane. L E DIFFICOLTÀ FISICHE Fino al 2018, seppure con una certa fatica, son riuscito a muovermi contando sul supporto delle mie gambe. A distanza di quattro anni dalla diagnosi, però, ho comin- ciato a manifestare dei segni di cedimento. Ricordo bene ciò che è accaduto un giorno, agl’inizi di ottobre di quell’anno. Dopo aver consumato il pranzo, mi sono alzato per andare al servizio igienico, senza l’aiuto del deambulatore. Mentre stavo rien trando in cu- cina, all’improvviso, sono inciampa to e quindi caduto sulle ginocchia. Quel giorno, in casa c’erano soltanto mia moglie, mia suocera e mia cognata. Tutt’e tre, insieme, hanno pro -

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vato ad aiutarmi a sollevarmi: tuttavia, ero troppo pe- sante per loro. Alzarmi a peso morto, per loro, era vera- mente molto difficile. Così, hanno deciso di chiamare in aiuto anche alcuni condòmini. Hanno provato a trascinarmi fino alla pol- trona, tuttavia, la testa si è inclinata in avanti ed ha oc- cluso le vie respiratorie. Questo incidente ha ulterior- mente messo alla prova il mio fisico, perché soffrivo già di difficoltà respiratorie che, di notte, mi costringevano ad utilizzare una BiPAP, cioè, una terapia respiratoria in- dicata per le apnee notturne ed altre patologie che col- piscono l’apparato respiratorio. Mantenendo la testa inclinata in avanti, quindi, ha pro- vocato l’ostruzione delle vie respiratorie: del resto, la mia trachea si era già ridotta ad una sorta di «cannuccia». Ciò nonostante, sono riuscito a fronteggiare tutte quelle dif- ficoltà, compensandole con una certa abilità e control- lando il respiro. Quando mi hanno sistemato sulla poltrona, però, ho perso i sensi ed è stato necessario allertare l’ambu lanza che, all’epoca dei fatti, aveva ancora una sede operativa ad Agno. Nel giro di un paio di minuti, quindi, i sanitari ci hanno raggiunti a casa: quindi, hanno provato ripetuta- mente ad intubarmi, finché, al terzo tentativo, ci sono riusciti.

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Il giorno seguente il mio ricovero ospedaliero, il me- dico disse a Francesca che, ormai, era giunto il mo- mento opportuno perché fossi sottoposto all’inter vento per la tracheostomia. I L RICOVERO PER LA TRACHEOSTOMIA Nonostante non fossi particolarmente ben disposto nei confronti dell’idea di essere sottoposto a questa opera - zione, ero conscio di non aver alcuna alternativa. Per una settimana, sono rimasto ricoverato in medicina inten- siva e, sull’arco di quel periodo, ho assistito a innumere - voli «cambi di programma» da parte dei medici. I sanitari, infatti, provarono un po’ di tutto prima di giungere alla decisione definitiva dell’opzione dell’inter - vento. Il livello di esasperazione raggiunto da mia mo- glie era tale che, in preda alla rabbia, un giorno mi disse che voleva proprio farmi trasferire in Svizzera tedesca. Era molto sconvolta nel vedermi soffrire a causa di quella situazione e, alla fine, soltanto l’intervento del pri - mario del reparto di medicina intensiva riuscì – almeno parzialmente – a tranquillizzarla. In quei giorni, abbiamo anche deciso di farci raggiungere da mia madre che, dalla Sicilia, è venuta in Ticino. Desideravo, infatti, po- terla salutare con la mia voce, prima che – in seguito alla tracheostomia – nonmi fosse più possibile farlo. I medici, infatti, mi avevano avvertito al riguardo: dopo l’opera - zione, non sarei più stato in grado di parlare.

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Mia madre era solo parzialmente al corrente circa le mie condizioni di salute: mia sorella, infatti, le aveva rife- rito che ero malato, senza mai precisare quanto fosse grave lamia patologia. Del resto, era già anziana e io non desideravo che fosse angosciata dalle preoccupazioni. Per un paio di giorni, mia madre restò in Ticino e, in con- comitanza con il suo soggiorno, giunsero anche i cugini da Torino ed altri dalla Svizzera tedesca. In quel periodo, mi hanno tenuto a digiuno, perché – da un momento all’altro – sarei stato operato. L’inter - vento, però, è stato rimandato diverse volte e, così, mi hanno dato da mangiare. Questa indecisione si è trasci- nata fino a una domenica, quando hanno deciso che non avrebbero aspettato oltre per operarmi. Francesca ha accompagnato i cugini e, quando è rien- trata in camera, mi ha trovato in preda alla rabbia. Nel frattempo, infatti, i sanitari avevano deciso nuovamente di rimandare l’operazione e, purtroppo, mia mogli e non ha potuto manifestare il dissenso con il medico. A causa di questa serie di imprevisti, infatti, sono rima- sto nuovamente a digiuno. In quel momento, abbiamo chiamato Carmelo perché potesse portarmi un pezzo di pastiera napoletana, un dolce di cui ero particolarmente ghiotto. Stavamo attendendo che nostro figlio arrivasse, quando, alle 18, una dottoressa ed un dottore sono en-

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trati in camera, dicendomi «No, Francesco: non man- giare nulla! Ti portiamo in sala operatoria!» Carmelo era ancora per strada e portava con sé la torta e, invece, alla fine gli è toccato essere presente per l’inter vento. Quel continuo «tira e molla» ha esasperato tutti noi, perché ci siamo chiesti a più riprese se fosse, o meno, giunto il momento della tracheostomia. Alla fine, poi, mi hanno davvero operato e, al termine dell’inter vento, avevo una cannula inserita nella trachea, la quale richie- deva una costante medicazione per scongiurare delle infezioni. Dopo l’operazione, mi hanno tenuto «cuffiato» – hanno cioè applicato dall’esterno un palloncino gon fiato – af- finché il cibo non potesse finire nei polmoni. In queste condizioni, naturalmente, mi era impossibile parlare: ma almeno, riuscivo a respirare meglio, con l’ausilio del re - spiratore, e potevo anche mangiare. I sanitari si sono raccomandati però che non ingerissi legumi, riso, mais, rucola, pane grattugiato e tutti quei cibi che, in un modo o nell’altro, avrebbero provocato delle difficoltà nella deglutizione. A causa dell’inter - vento, come detto, non mi è più stato possibile parlare e, vivere quella condizione, era terribile. Le difficoltà incontrate nel tentare di farmi capire, a volte, hanno provocato inme una grande rabbia: nonmi è stato facile, infatti, sopportare questa situazione.

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I L TRASFERIMENTO E IL DISACCORDO SULLA PEG Nel reparto di medicina intensiva era necessario il posto letto occupato da me e, quindi, mi hanno trasferito in un altro ospedale, sempre nello stesso tipo di reparto. Da lì, infine, sono stato spostato in una clinica per dare il via alla riabilitazione. In quel momento, si è posto un nuovo problema da ri- solvere: aspirare, cioè, tutto il catarro che continuava a formarsi nelle vie respiratorie. Come se questa proble- matica non fosse sufficiente, appena giunto al centro riabilitativo si è subito presentata una nuova questione. I sanitari, infatti, non si spiegavano come mai io potessi continuare a mangiare autonomamente. Da quella constatazione iniziale ne è poi nata una nuova lotta, perché il personale curante voleva impian- tarmi una PEG, una di quelle sonde nutrizionali che ser- vono ad alimentare per iniezione il paziente. I sanitari ri- badirono – a più riprese – che non avevano mai visto un paziente con una tracheostomia che continuasse a mangiare «normalmente». Sulle prime, Francesca ha reagito con un misto di rab- bia e delusione, andandosene dalla clinica in lacrime. Il mattino seguente, però, non si è data per vinta e ha chie- sto di parlare con il direttore sanitario, sottolineando che io ero in grado di mangiare e non vi avrei mai rinunciato, se non per una necessità assolutamente indispensabile.

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Senza tergiversare troppo, mia moglie ha ribadito quanto già aveva detto agli altri sanitari. Il direttore, dopo aver ascoltato le spiegazioni di mia moglie, ha sottolineato come la logopedista non fosse concorde con questa posizione. La terapeuta insisteva perché fosse impiantata la PEG, anche perché sarebbe stato meno complicato gestire la terapia con il nutri- mento parenterale. Data l’impossibilità di conciliare le due posizioni, alla fine, sono stato sottoposto ad un esame. Tramite il naso, mi hanno messo una sonda collegata ad una teleca- mera, per monitorare il processo digestivo del cibo. Per avere un risultato il più possibile attendibile, mi hanno somministrato diversi alimenti, tra i quali, della pasta, della carne, della verdura, del «cottage cheese» – o fioc- chi di latte – e, infine, della frutta. Il test ha preso il via con la presenza simultanea del di- rettore sanitario, della logopedista e di mia moglie. Al termine di quell’esame, è emerso che l’unico alimento rimasto leggermente appiccicato alla parete della tra- chea era proprio il cottage cheese . Questa problematica con il formaggio fresco granuloso si sarebbe comunque presentata anche tra le persone senza particolari diffi- coltà digestive. Dato l’esito positivo del test, la mia volontà di conti - nuare a mangiare senza l’ausilio della PEG è stata ri spet-

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tata. Del resto, sarebbe stato sicuramente controprodu- cente sottopormi ad un nuovo intervento inutile che, peraltro, mi avrebbe pure levato il piacere di mangiare senza quel tipo di ausilio. A questo proposito, mi sono spesso domandato cosa sarebbe successo se mia mo- glie non fosse stata così determinata nel difendere la mia posizione. Lei ha lottato con decisione per dimo- strare a tutti quanti che la soluzione da loro auspicata non era quella ideale. Se abitualmente nelle persone la capacità di digerire efficacemente il cibo si aggira attorno al 70 percento, nel m io caso, era un po’ di meno: circa il 60. Tuttavia, non ho mai smesso di mangiare e ho sempre vissuto quel mo- mento della giornata con molto piacere.  Questo è stato il primo episodio di disaccordo con i sa- nitari, al quale ne sono poi seguiti altri. Ciò nonostante, voglio ringraziare tutti i terapeuti pre- senti nella struttura che hanno insegnato a Francesca come occuparsi di me, suggerendo inoltre come attrez- zare l’appartamento con tutti i mezzi ausiliari necessari. Si sono anche premurati di mostrarle come gestire la tracheostomia, procurandole pure tutte le medicazioni da usare allo scopo. Le hanno fornito inoltre tutti gli in- tegratori alimentari che dovevo assumere, perché a

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causa del mio dimagrimento, erano diventati assoluta- mente necessari. Un’alt ra problematica fastidiosa si è presentata quando, la cassa malati, ha rifiutato di rimborsare il co- sto dei sondini e delle «contro cannule». Così, in mio aiuto è giunta la Lega Polmonare, che ha procurato l’aspiratore per rimuovere il catarro che si formava in ec- cesso e, soprattutto, ci ha insegnato ad usarlo. Già durante la degenza, infatti, si era verificato un blocco respiratorio a causa del catarro, che aveva pur- troppo ostruito la tracheostomia. Tutto si è poi risolto nel migliore dei modi, però, e dopo un mese di permanenza nella struttura, ho fatto rientro a casa. I L RITORNO A CASA E LA RICERCA DI UN ASSISTENTE Agl’inizi di dicembre, son tornato alla «consuetudine di casa». In quel momento, si è presentata un’altra esigenza non trascurabile: Francesca, infatti, doveva tornare a la- vorare. Io, però, non potevo certo restare a casa da solo: serviva la presenza costante di un assistente. Così ci siamo dati da fare per trovare la giusta persona che po- tesse assicurarmi un supporto ottimale. Mia moglie ha quindi preso in mano la situazione, in modo tale da or- ganizzare efficacemente la «rete di sostegno». Per prima cosa, ha contattato gli uffici di collocamento per informarsi se vi fosse una persona disponibile per se-

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guirmi per sei ore al giorno. Il compenso di questa per- sona sarebbe stato pagato direttamente dall’assicura - zione invalidità, dato che avevo un’età per la quale era possibile beneficiare dei sussidi. In seguito, con Francesca abbiamo pubblicato pure degli annunci per la ricerca di un assistente, ricevendo delle candidature anche dalla Sicilia. Alcune persone erano disponibili a trasferirsi ad Agno, pur di trovare un lavoro. Ci è stato anche assicurato che avremmo potuto assumere una persona non residente in Ticino. Tuttavia, noi desideravamo trovare qualcuno a livello locale. Al termine di quella fase di ricerca, si sono presentate diverse persone. Francesca e Carmelo si sono occupati dei colloqui con i candidati e, infine, la scelta è ricaduta su un giovane che era già attivo – nelle notti di venerdì e sabato – presso una struttura per disabili nei pressi di Lu- gano. Musin – così si chiama questo giovane – si sarebbe oc- cupato di me tra le 8 e le 12 e le 15 e le 18, a partire dal mese di gennaio. Perché potesse lavorare nel rispetto di tutte le leggi, Francesca si occupò di tutte le pratiche burocratiche del caso, potendo contare sul supporto della Lega Polmonare.  Ho trascorso il periodo delle festività natalizie a casa, in compagnia della mia famiglia. Purtroppo, il 4 gennaio,

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durante uno spostamento tra la sedia e la poltrona, sono stato vittima nuovamente di un arresto respiratorio. L’ ARRESTO RESPIRATORIO E UN NUOVO RICOVERO Ancora una volta, è stato necessario chiamare l’ambu - lanza. Prima che i soccorritori potessero raggiungerci a casa, però, Francesca si è subito preoccupata di aspirare il catarro. All’arrivo del medico, stavo nuovamente bene: ho aperto gli occhi e, quindi, il dottore giunse alla conclu- sione che avevamo eseguito nel migliore dei modi tutta la procedura . Non ravvisava, quindi, l’utilità di farmi rico - verare all’ospedale. Ciò nonostante, per una questione di prudenza, alla fine sono stato portato al pronto soccorso. Al mio arrivo, un’infermiera – senza guanti – ha cominciato a manipo- lare il sondino della tracheostomia. Subito, mia moglie, le ha chiesto cosa stesse facendo, perché riteneva inam- missibile il fatto che eseguiva questa procedura senza adottare le dovute precauzioni. I sanitari hanno rivolto lo sguardo a Francesca, chie- dendole poi se ogni volta usasse i guanti. «Certo» Ha risposto, affermando poi: «Lo sa che il ri- schio di infezione è molto alto?» Poi è arrivata una dottoressa che ha esordito dicendo: «Allora, ha fatto un arresto cardiaco?» La nostra risposta è stata invece: «No, non ho avuto un arresto cardiaco: mi

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si è occlusa la tracheostomia e ho fatto un arresto respi- ratorio.» E a quelle parole, la dottoressa ha risposto con un «Vabbè, è la stessa cosa.» In più di un’occasione ci è toccato ripetere ai nostri in - terlocutori che non si trattava delle problematiche da loro ipotizzate. A complicare quelle circostanze, poi, si aggiungeva il fatto che io non ero in grado di parlare, né tantomeno di suonare il campanello. Per queste ragioni, mi avrebbero dovuto ricoverare in un reparto sorve- gliato: eppure, a me è stata assegnata una camera priva di questa accortezza.  In quel periodo, però, non eravamo a conoscenza della disponibilità dei mezzi ausiliari specifici per i casi analo- ghi al mio. Solo in seguito, infatti, mi hanno detto che ASLASI è solita mettere a disposizione dei campanelli speciali che si possono gestire semplicemente pre- mendo il capo sul cuscino. Un pulsante di dimensioni generose, collegato ad un campanello, permette infatti di superare le difficoltà dei pazienti come me. Raccontando questi episodi o esponendo le mie pun- tualizzazioni, non intendo ovviamente puntare il dito contro alcuna struttura o operatore sanitario. L’intento, al contrario, è quello di condividere quelle che sono state le emozioni e le sensazioni provate dame in alcune circostanze. Vivendo determinate situazioni ed espe-

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rienze, infatti, si può offrire un punto di vista ad altri ma- lati, rassicurandoli su alcuni aspetti. Primo tra tutti, quello di non aver paura a chiedere o a far rispettare le proprie opinioni o scelte. In caso di dubbi, infatti, ci si può sempre rivolgere a consulenti che possono essere di grande aiuto, grazie alla loro esperienza maturata sul campo. Quest’ultima permette, infatti, di individuare sempre le migliori solu- zioni da adottare in ogni caso.  Dopo questa breve parentesi, torno a raccontare di quei due giorni trascorsi in ospedale. Devo ammettere che, pur essendo rimasto solo per un paio di giorni nella struttura, alla fine, non vedevo l’ora di poter far rientro a casa. Nella struttura ospedaliera, in- fatti, non mi sentivo seguito in modo adeguato. Nessuno aveva colpa della situazione che si era venuta a creare, tuttavia, come malato sentivo di avere delle esi- genze particolari. Delle accortezze che richiedono tempi e risorse che, all’interno di un ospedale, spesso non sono reperibili e che, dal punto di vista dei pazienti, spesso provocano una sorta di senso di abbandono. Ad esempio, prima di essere dimesso, i sanitari si sa- rebbero dovuti occupare di «aspirarmi». Dopo aver chie- sto assistenza al medico che è passato in camera per sa- lutarci, dallo stesso, abbiamo ricevuto rassicurazioni sul

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fatto che, qualcuno, sarebbe passato a svolgere quel compito. Alla fine, nessuno si è preoccupato di farlo e, mio figlio, innervosito in modo particolare da quella situazione, ha deciso di provvedere egli stesso. Dopo aver preso il son- dino, mi ha «aspirato»: secondo Carmelo, aver atteso va- namente per un’ora, era stato più che sufficiente. Tutte queste esperienze, nel tempo, hanno permesso di accrescere il livello di conoscenza della malattia. Gra- zie agli operatori del settore sociosanitario, nel presente, il supporto assicurato ai pazienti è in continuo migliora- mento. I L RIENTRO A CASA E UNA NUOVA CONSUETUDINE Il 7 gennaio, Musin ha cominciato ad occuparsi di me, imparando ad usare gli strumenti da Francesca ed ap- prendendo, inoltre, ad «aspirarmi» correttamente. La cura dell’aspetto infermieristico è stata invece affi - data ad un’infermiera attiva presso il reparto di medi - cina intensiva che, di lì a poco, avrebbe smesso di lavo- rare presso l’ospedale per mettersi in proprio. Tuttavia, neppure lei sapeva usare correttamente il cough assi- stant – noto comunemente anche come «macchina della tosse». Questo apparecchio, una volta attaccato alla cannula, permette tramite delle aspirazioni ed espirazioni ese- guite in sequenza di smuovere il catarro in profondità.

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Alla fine, per garantire la giusta continuità per la mia assistenza, abbiamo deciso che Musin sarebbe stato in mia compagnia durante il giorno, mentre l’infermiera, si sarebbe occupata di me il mattino e la sera. A rendere complicata la mia assistenza c’era la predisposizione alle infezioni nell’area dove andava ad inserirsi la cannula , una condizione causata dall’umidità attorno alla ferita.  Nella consuetudine dell’assistenza quotidiana, l’infer - miera si alternava con un altro sanitario, il quale, alla fine venne prescelto per continuare a seguirmi. Dal canto mio, io ero stupito dalle reazioni contrariate dell’infermiera di fronte alla proposta di adattare le cure alle mie esigenze. In particolare, non ho mai capito per- ché per disinfettare la ferita si continuasse a far uso del Betadine, che a causa della sua colorazione, macchiava continuamente le lenzuola, le magliette e il pigiama. Francesca, a questo proposito, si era informata per l’uso di un altro disinfettante incolore, s coprendo che avremmo potuto fare tranquillamente così. Per convin- cere della bontà della tesi l’infermiera, però, è stata ne - cessaria una lotta prolungata. Del resto, la medicazione della cannula era eseguita per due volte al giorno e, quindi, era molto importante che non causasse disagi di alcun tipo.

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A causa del modo differente di approcciarsi alle mie necessità in termini di assistenza, tra l’infermiera e mia moglie sono insorti alcuni contrasti. Il primo si è verifi- cato subito dopo la nostra partenza per un finesetti- mana a Winterthur, in occasione della cresima di un no- stro nipote. All’arrivo nella Svizzera tedesca, infatti, dopo aver sfilato la «contro cannula» per eseguire la medica- zione, ci siamo accorti che la ferita presentava una forte infiammazione. In quel momento, siamo rimasti colpiti dal colore rosso acceso e dal cattivo odore che emanava. Due giorni dopo, appena rincasati, Francesca ha chie- sto all’infermiera se vi fosse qualcosa che non andava per il verso giusto e, soprattutto, se non si fosse resa conto che vi era una grossa infezione in corso. La donna ha risposto che «andava tutto bene», ma non era vero. Secondo me, si sarebbe dovuta facilmente rendere conto dell’esistenza del problema: in fondo, non era pro - prio lei ad eseguire la medicazione due volte al giorno? Eppure, non si era accorta proprio di nulla: e ho trovato la cosa davvero molto grave. Oltre a ciò, però, son rimasto ancor più perplesso quando ci ha detto che «avremmo anche potuto avvi- sarla di questo problema». Queste parole hanno lasciato me e mia moglie di stucco. Lei era la mia infermiera, nonché responsabile della mia cura: come poteva dele-

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gare a noi il compito di accorgerci di eventuali problemi di salute? Devo ricordare, ancora una volta, che durante questo duro cammino, purtroppo, siamo stati confrontati an- che con queste esperienze. Come se, di per sé, la malat- tia non fosse sufficientemente fonte di grandi preoccu- pazioni. Per curare questa brutta infezione batterica, mi è stata prescritta una cura a base di antibiotici. Purtroppo, mi toccò replicare il medesimo trattamento anche all’inizio dell’estate. A lla lunga, questa situazione si è risolta nell’unico modo possibile: come anticipato qualche riga sopra, alla fine, dell’aspetto infermieristico se n’è occupato solo l’al - tro sanitario.  Nel mese di agosto 2020, mia madre ci ha lasciati e, tutti insieme, abbiamo raggiunto la terra natia per essere presenti al suo funerale. Qualche mese dopo – e, per la precisione, a novembre – sono stato nuovamente vittima di un’altra infezione. In quell’occasione, sono stato ricoverato in una clinica nei pressi di Lugano, affinché fossero eseguiti altri controlli. Il mio pneumologo, su consiglio dell’infermiera che ve - niva a casa per la terapia della tosse assistita, asserì che avevo bisogno di un umidificatore. Dopo avermi siste-

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mato in una camera con diverse apparecchiature, il me- dico mi ha detto che – anche a casa – avrei dovuto avere a disposizione le stesse macchine. Ovviamente, non era possibile realizzare tutto ciò in un’abitazione e, io, non riuscivo a capire il senso di quella richiesta. In effetti, non respiravo male: non c’era alcuna valida motivazione per la quale dovessi attrezzarmi in quellamaniera: e alla fine, non si fece proprio nulla di ciò. Un altro motivo di incomprensione con questo sanita- rio è stato quello relativo alla sostituzione della cannula. Francesca, infatti, si era informata al riguardo, e le ave- vano suggerito che il cambio andava effettuato ogni cin- que o sei settimane. Il medico, invece, sosteneva che era sufficiente farlo ogni tre mesi. Siccome non eravamo concordi su questo aspetto, ab- biamo consultato il miomedico curante: quest’ultimo, ci ha consigliato un altro specialista, molto valido e com- petente. Nel frattempo, si era manifestata un’altra esi - genza: quella di avere un assistente anche per i giorni di sabato e domenica, che abbiamo trovato nella persona di Marcello. Agl’inizi di gennaio, però, quest’ultimo – andando a pattinare – si è rotto la spalla. Questo incidente ha im- mediatamente imposto l’esigenza di trovare un’altra persona disponibile a seguirmi. La soluzione a questa problematica si è presentata quando una nostra amica

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è giunta in Ticino in compagnia del suo fidanzato, Elia, che ancora non aveva un’occupazione. Gli abbiamo quindi proposto di prendere il posto di Marcello e, nono- stante non avesse mai fatto un lavoro simile, si è subito dimostrato molto ben disposto ad imparare. La scelta di assumere Elia si è rivelata al pari di una manna dal cielo. Dopo un paio di mesi di permanenza a casa, mi ha convinto a provare a togliere l’aria dal pallon - cino: nel gergo tecnico, ha tentato di «scuffiarmi». Un giorno, infatti, mi ha detto: «Francesco, perché non facciamo una prova? In fondo, non ti piacerebbe dirci quali sono i tuoi desideri o come la pensi? Ti lasciamo cuffiato solo quando mangi.» Elia mi ha rassicurato su un aspetto molto importante: era lì, accanto a me, pronto ad intervenire se fosse accaduto qualcosa. Al mi- nimo accenno di un problema, mi avrebbe «cuffiato» im- mediatamente. Grazie a questa prova, desidero sottolinearlo bene, io son tornato nuovamente a parlare. Ho potuto far sentire la mia voce, trasmettere i miei desideri, le mie paure, manifestando ciò che volevo (o meno) che si facesse. Si era trattato di un piccolo miracolo. Devo dire, poi, che restando «scuffiato» ho notato un miglioramento netto anche per quanto riguardava i miei problemi di catarro. La ferita, inoltre, non restava più umida: questo aspetto

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ha contribuito in modo determinante a ridurre gli epi- sodi infiammatori. A rendere ancor più complicata una situazione già di per sé non semplice, si è aggiunta anche la pandemia Covid-19, che ha impedito al mio assistente di essere presente a casa. Musin, infatti, se n’è dovuto restare a casa sua, pagato dall’assicurazione invalidità. A causa di questo imprevi - sto, Elia è rimasto da solo su tutto l’arco del mese di aprile. In quel momento, poi, si sono anche verificati dei disguidi sui rimborsi malattia di Musin: e Francesca si è dovuta occupare di risolvere queste problematiche di natura burocratica. Alla fine del mese di giugno, anche lui ha smesso di oc- cuparsi di me, mentre Marcello, ripresosi dall’infortunio, è tornato ad assistermi. Elia, nel frattempo, aveva deciso di iscriversi alla scuola per diventare operatore sociosa- nitario: la sua esperienza a casa mia, l’aveva guidato a compiere questa scelta. Durante il giorno, trascorreva il suo tempo con me: poi, la sera, frequentava la scuola. In quel periodo, tutti i miei familiari sono stati contagiati dal coronavirus. L’unico a non ammalarsi sono stato pro - prio io.  Proprio in quel periodo, una sera, abbiamo ricevuto la gradita visita di una collega di mia moglie. Lei ci disse

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che, nella città pugliese di Lecce, avevano aperto una struttura marittima per persone affette da SLA. Quella preziosa informazione è stata da spunto per Francesca che, informandosi al riguardo, ha scoperto che in verità erano tre le spiagge italiane attrezzate in modo tale da permettere l’accoglienza dei malati. Una di queste spiagge si trova in Emilia-Romagna e, più precisamente, nella località di Punta Marina, in pro- vincia di Ravenna. A dare il via a questa iniziativa, è stato proprio un malato di SLA che, dopo esser stato in va- canza a Lecce, ha espresso il desiderio di aprire una struttura ana- loga sulla costiera roma- gnola. Purtroppo, non ha potuto assistere alla con- cretizzazione del suo pro- getto: ma il suo sogno è stato portato avanti dalla moglie che, con l’aiuto di alcune associazioni, lo ha reso possibile. La speciale spiaggia «Insieme a te». «Insieme a te» è il nome di questa spiaggia attrezzata per tutte le persone affette da malattie invalidanti e con gravi disabilità. In questo spazio accogliente, ci sono le co lonnine per l’ossigeno, quelle per l’elettricità, i lettini antidecubito, le docce attrezzate, i sollevatori e le sedie

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per fare il bagno. C’è anche la possibilità d i mangiare di- rettamente in spiaggia e, il tutto, è organizzato in fun- zione delle necessità dei malati e degli accompagnatori. U N PO ’ DI RELAX AL MARE Prima che potessimo organizzare le ferie, però, abbiamo dovuto trovare un’altra persona che si occupasse di me. Elia, infatti, a giugno ha smesso di lavorare per me: e così, Alex è entrato a far parte della nostra consuetudine.

Anche lui ha dovuto im- parare tutto da capo e si è dimostrato, sin da subito, desideroso di collaborare e pieno di motivazione. In compagnia di Alex, quindi, abbiamo potuto trascorrere il nostro sog- giorno al mare, soggior- nando in un albergo nei

Le attrezzature della spiaggia.

pressi dello stabilimento. La mattina, ci siamo concessi delle ore di relax in spiaggia, dove avevo il mio posto ri- servato: Alex e Francesca, quindi, stavano con me. Ogni postazione era completa di un lettino per il ma- lato e due sedie per gli accompagnatori. Nelle ore della tarda mattinata, poi, il servizio di ristorazione portava il pranzo. La consuetudine dei pasti si completava poi quando, verso sera inoltrata, Francesca mi preparava

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