Quando abbiamo deciso di dare vita a questa nuova rivista, il nostro primo pensiero, scontato e inevitabile in questi casi, è stato quello di sperare che sollevasse un certo interesse nei confronti del mondo dei cultori della buona musica, che fosse classica, jazz, rock e d’autore, e di quello di coloro che vogliono ascoltarla con la dovuta qualità e fedeltà di riproduzione. Una rivista che, a differenza di altre del settore già presenti sul mercato, fosse per il lettore del tutto gratuita, scaricabile in formato Flipbook, PDF ad alta risoluzione, oppure stampata attraverso un prodotto di nicchia, elegante, lussuoso, destinato volutamente a coloro che desiderano collezionare un periodico di pregio, destinato a restare nel tempo.
STORIE | MUSICA | ASCOLTI | HI-FI
AntonBruckner il profeta inascoltato
La “Regina” negli studi della BBC Le leggendarie registrazioni QUEEN “ON AIR”
Vijay Iyer Quando il jazz fa rima con intellettualità
Nino Rota La musica che va oltre il cinema
A un artista... Educarsi al silenzio
REFERENCE ZE MOREL AVYRA 622 MUSICBOOK SOURCE II
Velut Luna 2025 Vol. 3 Master File Sampler – in questo numero l’album digitale > download gratuito
GrooveBack magazine
Vogliono che io scriva in modo diverso. Certo, potrei, ma non devo.”
Anton Bruckner
Issue 2
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Hanno collaborato a questo numero: Giovanni Acciai, Pippo Basile, Andrea Bedetti, Alfredo Di Pietro, Edmondo Filippini, Max Ishiwata, Noemi Manzoni, Davide Miele, Alessandro Nava, Sandro Vero, Francesco Cataldo Verrina.
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Editoriale Quando abbiamo deciso di dare vita a questa nuova rivista, il nostro primo pensiero, scontato e inevitabile in questi casi, è stato quello di sperare che sollevasse un certo interesse nei confronti del mondo dei cultori della buona musica, che fosse classica, jazz, rock e d’autore, e di quello di coloro che vogliono ascoltarla con la dovuta qualità e fedeltà di riproduzione. Una rivista che, a differenza di altre del settore già presenti sul mercato, fosse per il lettore del tutto gratuita, scaricabile in formato PDF ad alta risoluzione, oppure stampata attraverso un prodotto di nicchia, elegante, lussuoso, destinato volutamente a coloro che desiderano collezionare un periodico di pregio, destinato a restare nel tempo. Ebbene, la versione gratuita in PDF ha sfiorato i 3200 download certificati. Diciamolo chiaramente, un successo davvero insperato, che è andato oltre le nostre più rosee previsioni, segno che, al di là della curiosità fomentata dalla novità del fatidico “numero uno”, si è scatenato nel settore degli appassionati un tam-tam, un continuo passaparola da parte di coloro che avevano scaricato il PDF, consigliando e suggerendo di fare altrettanto ad amici e conoscenti, amanti della musica e dell’audiofilia. Consci e ulteriormente stimolati da questo beneaugurante successo, eccoci dunque al secondo numero della rivista, che vede in copertina un volto anziano, che sembra scolpito nel tempo, capace di emanare saggezza e sapienza, quello che abbiamo ritenuto ideale per rappresentare un gigante della musica colta, Anton Bruckner, nel secondo centenario della sua nascita, e al quale abbiamo dedicato un articolo che, oltre a presentare una sorta di consuntivo aggiornato della sua figura e della sua opera, così negletta e fraintesa in passato, vuole anche fornire una sorta di guida introduttiva al formidabile corpus delle sue sinfonie. Sempre restando nel settore della classica, vi invito a leggere due contributi, quello che Giovanni Acciai, tra i massimi studiosi di musica antica al mondo, ha dedicato a un compositore napoletano a cavallo tra Seicento e Settecento, l’ingiustamente dimenticato Antonio Domenico Nola, e quello che Edmondo Filippini ha voluto riservare a un musicista di colore del primissimo Novecento britannico, Samuel Coleridge-Taylor. Senza dimenticare un’intervista, a dir poco iconoclasta, nella quale un compositore italiano, David Fontanesi, si scaglia senza mezzi termini verso quella musica contemporanea che ha dimenticato e ucciso il concetto naturale della Bellezza. Pippo Basile ci svela una pagina sconosciuta dei Queen, quella che vede protagoniste le registrazioni che la band inglese fece alla BBC tra il 1973 e il 1977, riversate poi in una registrazione, On Air - The Complete BBC Radio Session, divenuta ben presto oggetto di culto degli appassionati. Una nuova firma, lo studioso e critico di jazz Francesco Cataldo Verrina, ci presenta invece l’opera di un grande e sfortunato trombettista, Lee Morgan, prendendo in esame tre suoi dischi leggendari. Senza dimenticare gli interventi di Alfredo Di Pietro, Noemi Manzoni, Davide Miele, Alessandro Nava e Sandro Vero. Il settore dedicato all’ascolto di qualità presenta, tra l’altro, un articolo sui cavi di potenza ZE Reference, destinati a esaltare impianti di ascolto Hi-End; inoltre, parliamo anche delle nuove frontiere tecnologiche, quelle destinate alla musica liquida, con due apparecchi, il Lindemann Musicbook Source II e lo Str@mbo. Buona lettura a tutti! di Andrea Bedetti
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Sommario
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Editoriale 10 Il nostro CD da scaricare: dieci brani dal catalogo Velut Luna 2024 18 Anton Bruckner, il grande incompreso 34 Oltre le barriere: la vita e la musica di Samuel Coleridge-Taylor 40 A un artista… 42 Quella volta in cui la “Regina” si recò negli studi della BBC 46 Antonio Domenico Nola: un protagonista del Seicento napoletano 52 Wheels of Fire, il capolavoro del blues bianco britannico 56 Rivolta contro la musica contemporanea 64 Francesco Libetta, un principe aristocratico della tastiera a Milano 70 Lee Morgan: un fenomeno, per certi versi, ancora da scoprire 78 Ernani, un’opera ingiustamente travisata 82 I/O di Peter Gabriel 86 Nino Rota lontano dalla celluloide 92 Coltivare la malinconia: la musica inglese tra il XVI e XVII secolo 96 Il raffinato intellettualismo di Vijay Iyer 100 Reference ZE, nell’olimpo dei cavi di potenza 106 Lindemann Musicbook Source II 110 Avyra 622, una nuova stella del firmamento Morel 116 Mini Caravaggio, un artista di amplificatore 122 Lo Str@mbo, uno streamer italiano 126 Bruckner secondo Zignani
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Il nostro CD da scaricare: dieci brani dal catalogo Velut Luna 2024
di Andrea Bedetti
Il sampler accluso in questo secondo numero di GRooVE back Magazine permette di scoprire la “filosofia di produzione” dell’etichetta di Marco Lincetto, la quale oltre a vantare titoli appartenenti a diversi generi musicali, dal pop alla classica, passando attraverso il jazz e il progressive rock, non abbandona mai una qualità tecnica del suono che si prefigge lo scopo ultimo che dovrebbe accompagnare ogni disco che si rispetti: restituire la musica per quello che è, senza aggiungere o togliere nulla. Marco Lincetto e la sua “creatura”, la Velut Luna, che ha iniziato a esistere dal 1995 e che fino ad oggi ha messo a disposizione degli audiofili e degli appassionati di musica più di trecentottanta registrazioni dedicate a diversi generi musicali. Tutti questi titoli, però, pur nella loro differente appartenenza musicale, vantano una prerogativa, che lo stesso Marco Lincetto ha voluto spiegare a chiare lettere sulla pagina web della casa discografica, delineando la sua “filosofia” di approccio e di restituzione del suono catturato. Ecco che cosa si prefigge, dunque, questa etichetta: «Velut Luna pensa che ogni esecuzione di musica vera, cioè suonata dal vivo, da musicisti attuali, su strumenti acustici e in un ambiente vero, sia unica e irripetibile. Ogni strumento suonato da due musicisti diversi o due diversi strumenti suonati dallo stesso musicista ma in un diverso ambiente e in momenti diversi non avranno mai lo stesso suono. L’obiettivo di Velut Luna è di documentare con i mezzi più idonei l’avvenimento musicale mentre sta accadendo, senza togliere e senza aggiungere niente all’evento musicale. Il nostro intento è di rifiutare qualunque forma di standardizzazione e omologazione del suono». Spiegato a parole, tutto ciò può apparire semplice, ma nella realtà delle cose è assai più difficile, ma Lincetto non è mai venuto meno a quanto ha voluto esprimere in teoria e, in quasi trent’anni di attività, ha saputo sfornare sempre prodotti artisticamente e tecnicamente validi. E per capirlo, soprattutto a beneficio di coloro che non conoscono nei fatti e nei risultati la Velut Luna, in questo numero della rivista mettiamo a disposizione dei lettori un sampler con dieci brani che appartengono ad altrettanti titoli dell’etichetta in questione. Titoli che rientrano nel genere del progressive rock, della classica, del jazz, della canzone d’autore e del pop. Vediamo, quindi, questi dieci
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brani che, attraverso il loro ascolto, spiegheranno assai meglio delle parole la qualità e la “filosofia di produzione” che sta tanto a cuore a Marco Lincetto.
Il prog è morto, viva il prog! No, no, le cose non stanno propriamente in questo modo, quindi aspettate e riavvolgete il nastro! Sì, perché il rock progressivo non alberga solo nel mondo dei nostri ricordi degli anni Settanta, ma vive ancora adesso. E lo fa anche attraverso un musicista italiano, il sessantatreenne Amos Ghirardelli che, alla testa di altri sei validissimi artisti, ha voluto rinverdire i fasti di questo glorioso genere musicale in un nuovissimo disco, intitolato Libero arbitrio e suddiviso in una tracklist formata da cinque brani, di cui l’ultimo, Malinconia , è il primo che appare in questo sampler della Velut Luna. Su una stimolante base ritmica, Amos Ghirardelli comincia a volare con le sue tastiere con sentori alla Vangelis,
passando poi il testimone alla chitarra elettrica di Matteo Ballarin che interviene con un contributo che riporta alla mente Steve Hackett, dipanando una melodia che rimanda a quelle dei Genesis post Peter Gabriel. Oltre ai due musicisti citati, bisogna ricordare anche gli altri artisti coinvolti in questo progetto: Andrea Valfrè alle tastiere, Filippo Ghirardelli al pianoforte, Andrea Ghion al basso, Roberto “Bob” Parolin alla batteria e Massimo Bellio alla voce. Cambiando radicalmente genere musicale, eccoci alle prese con un’autentica chicca che farà felici sia coloro che amano la classica, sia quelli che sono anche ammaliati dalla magia del cinema d’autore, poiché il punto che unisce questi due mondi si chiama Nino Rota , l’indimenticabile musicista milanese, il cui nome è legato, tra gli altri, a quello
di Federico Fellini. Ma, come ci fanno comprendere benissimo i tre musicisti che hanno dato vita a questo disco, dal titolo Nino Rota e dedicato a quattro sue pagine cameristiche, ossia Luca Lucchetta al clarinetto, Francesco Martignon al violoncello e Gianluca Sfriso al pianoforte, il nostro compositore non può e non dev’essere relegato nella scomoda ed esclusiva posizione di creatore di colonne sonore, poiché Rota è stato un musicista a tutto tondo, capace di spaziare in diversi generi, a cominciare da quello classico e, nel caso specifico, alla musica da camera. Ma è altrettanto vero che il musicista milanese, affrontando il lato colto della materia sonora, non abbandona mai la tipica verve umoristica e ironica, condita da un tocco di
sottilissima amarezza esistenziale, la stessa che è andato a riversare nei commenti musicali presenti nei capolavori cinematografici del maestro riminese. Per capirlo, ascoltate l’Allegrissimo che conclude lo straordinario Trio per clarinetto, violoncello
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e pianoforte scritto nel 1973, reso con una vividezza e un’aderenza al mondo di Rota davvero encomiabile da parte dei tre interpreti.
Uno degli indubbi meriti dell’etichetta discografica di Marco Lincetto è quella di porre la dovuta attenzione su autori ingiustamente dimenticati dagli uomini e dal tempo, come nel caso del grande compositore, pianista e didatta padovano Silvio Omizzolo, autentico punto di riferimento per decine di futuri musicisti da lui formati al Conservatorio Pollini della città veneta. Così, il pianista Giovanni Tirindelli, che è stato tra l’altro uno degli ultimi allievi di Omizzolo, ha voluto registrare una delle opere cardine del suo maestro padovano, una pagina che unisce
alla perfezione il lato creativo, artistico, con quello eminentemente didattico, ossia Dieci Studi sul Trillo , in cui questo artificio musicale viene esaltato, sviluppato, modificato, applicato magistralmente alle leggi della tastiera pianistica in un vortice di trovate, di articolazioni, di geniali adattamenti, come nel brano presente in questo sampler , in cui è possibile ascoltare la Mazurka , la cui linea melodica, brillante e accattivante, viene continuamente stimolata, percorsa e impreziosita proprio dal continuo intervento del trillo. Cambiando totalmente genere ed entrando in quello della canzone d’autore, se ascoltiamo il quarto brano di questa tracklist di presentazione della Velut Luna, vale a dire Empi divi , ci sembrerà di sentire riecheggiare il tipico spirito musicale di Franco Battiato, anche se non si tratta di lui. Già, perché sto invece parlando di uno dei personaggi più eclettici, interessanti e politicamente (s)corretti del panorama musicale italiano, Antonello Cresti, il quale, oltre ad essere musicologo specialista della musica inglese contemporanea, agitatore culturale e politico, è anche un musicista,
come dimostra il suo disco dal sintomatico titolo de Le radici di una intolleranza , un prodotto decisamente iconoclasta, tellurico, in cui Cresti, sulla scia filosofica di Marx e di Nietzsche, usa il martello applicato in musica per dissacrare questa belluina e abbrutita società, figlia di un sistema nel quale, giustamente aggiungo io, non si riconosce assolutamente. Su tali prerogative, la lezione data dalla “musica informativa” di Franco Battiato diviene il timone, ma non è l’unico, attraverso il quale Cresti decide di solcare le acque torbide e putride del nostro presente. E lo fa, con questo CD, con
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le prime sei tracce, mentre la settima, Fuoco , è farina del sacco di Claudio Rocchi, un altro musicista che aveva la sana abitudine di non mandarle di certo a dire. Il martello di Cresti, in Empi divi , prende di mira i musicisti del mondo classico, quelli, tanto per intenderci, che credono di essere degli dèi in terra senza averne alcun diritto e nessuna prerogativa (è interessante come il brano inizi su una base preregistrata di un’orchestra che prova gli strumenti prima di un concerto, sulla falsariga di quanto fecero i New Trolls nell’incipit di Concerto grosso n. 1 ). Un album, il suo, da ascoltare e meditare, senza dimenticare il fondamentale apporto del pluristrumentista Frankie Giordano, che si destreggia abilmente tra chitarre elettriche e acustiche, basso elettrico, tastiere, batteria e samples .
Quando sono venuto a sapere l’età dei due fratelli Lucchin, Gabriele e Niccolò, che formano il duo Martian Noise, non ci volevo credere. Sì, perché questi due eccezionali polistrumentisti hanno rispettivamente diciannove e diciassette anni! Ma ascoltateli nel loro CD Frequency of Humanity e straccerete i loro dati anagrafici per il semplice fatto che fanno musica con i controfiocchi! Al di là del fatto che Niccolò suona la batteria come se avesse almeno dieci anni di più e con un background artistico di ben altra levatura, Gabriele, udite udite, si applica in questo disco su uno Steinway & Sons D274 Concert Grand Piano, sull’organo Hammond C3, sulla Fender Rhodes MKI, sulla tastiera Prophet 600, sull’Akay AX-80, sull’ expander Oberheim Matrix 1000 e sul sintetizzatore Vermona Perfourmer. Chi mastica
un po’ di rock come si deve, capirà già che ci troviamo di fronte a due appassionati dell’epopea del grande Prog delle origini, sì proprio quello dei mitici anni Settanta, nato e cresciuto fra la Gran Bretagna e il nostro Paese (quando quest’ultimo faceva ancora musica come Cristo comanda). Così, grazie anche ai loro genitori, i due fratelli Lucchin sono cresciuti con pane ed Emerson Lake & Palmer, Yes, Genesis, Rick Wakeman, Pink Floyd, Alan Parsons Project e, in barba alla loro giovanissima età, hanno acquisito una conoscenza a dir poco enciclopedica e profonda di quel raffinato genere musicale. E, allora, come non dare credito, a quanto riporta un passaggio delle note introduttive al disco, ossia «Era quindi inevitabile arrivare a questo FREQUENCY (of Humanity), che lungi dal rappresentare un triste clone derivativo delle opere dei Maestri, ne riprende gli stilemi, con calligrafico rispetto, offrendo tuttavia Musica realmente nuova e per i giorni nostri assolutamente innovativa, fresca e rigenerante, in un oceano ristagnante di banalità, di non-musica volgarmente predicatoria»? D’altronde, è sufficiente ascoltare la quinta traccia del loro CD, riportata nel sampler in questione, ossia Hanging Garden , per capire che ci troviamo di fronte a due puledri di purissima classe, destinati, se gli dèi musicali improvvidamente non li abbandoneranno, a fare grandi cose. Continuiamo con il genere della musica d’autore con un album intriso di differenti venature stilistiche, visto che provengono da artisti, tra gli altri, come Toquinho, Vinicius De Moraes, Pat Metheny, Pixinguinha, Joe Barbieri, Tania Maria, Noa, Egberto Gismonti
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e Lucio Dalla. Autori, per la maggior parte, della grande scuola brasiliana che sono stati convogliati nella voce e nel pianoforte di Tiziana Cappellino e nelle chitarre di Pietro Ballestrero nel loro disco Gira l’anima . È ovvio che, partendo dalla tipica musicalità e ritmicità date dalla musica brasileira , i due artisti abbiano voluto plasmare il loro disco esaltando queste componenti, che però sono smussate, levigate, edulcorate da un forte senso di intimità dato al suono, anche grazie alla voce calda e suadente di Tiziana Cappellino. In questo modo, è venuto fuori un prodotto che, al di là della
contaminazione degli stili e delle culture presenti, si pone l’obiettivo di valorizzare il concetto della bellezza che ogni creazione d’autore riesce a promuovere, anche quando ci troviamo di fronte a melodie che possono risultare, a un primo ascolto, semplici e perfino banali. E per fare ciò basta uno Steinway gran coda e delle chitarre acustiche, che sono presentati e preservati, nella loro essenza timbrica, dalla proverbiale fedeltà dell’incisione da parte di Marco Lincetto, come di consueto catturata rigorosamente live in studio. E il brano inserito nel sampler , un classico come Cara di Lucio Dalla, permette di apprezzare al meglio questo mix in cui la poesia dei testi, il suadente fascino della materia strumentale e la voce che canta o che vocalizza, portano a una vera e propria contemplazione musicale.
Non poteva, ovviamente, mancare in questo sampler un contributo al genere jazz, qui rappresentato da un pianista e compositore italiano, Osca Del Barba, che ha registrato per l’etichetta discografica di Marco Lincetto un CD, Double Time , del quale ho già parlato proprio per GRooVE back Magazine in un articolo apparso sulla versione web della rivista. L’artista bresciano, con questo lavoro, ha voluto fissare due diversi momenti della sua vita musicale, con le prime cinque tracce che sono state registrate nel 2018, mentre le ultime quattro risalgono al 2012. E se i
primi cinque tracks riguardano rivisitazioni personali di brani molto famosi, dei veri e propri “classici” del jazz, gli altri quattro sono creazioni e delle improvvisazioni dello stesso Del Barba. Questo è il significato del “duplice tempo” presente nel titolo e che, se vogliamo, è fissato anche nel pezzo presentato nel sampler della Velut Luna, Istante immenso , che fa parte del materiale creativo del compositore bresciano. Come ho già avuto modo di scrivere nella recensione, questo brano, insieme con quelli che fanno parte della sua vena creativa, «portano a capire il percorso attraverso il
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quale [Del Barba] ha saputo forgiare, partendo da un nucleo tematico, una semplice serie di accordi, un’idea sonora, un’articolazione programmatica in cui la prospettiva melodica non viene mai meno, attuata non solo a livello di coinvolgimento di ascolto, ma quale stratificazione necessaria per ultimare il segno propositivo della sua musica. Non un abbellimento, uno sterile strizzare l’occhio (e l’orecchio) di chi ascolta, ma la piena consapevolezza che la melodia può essere ancora necessaria per costruire, per innalzare, per fornire quel respiro tridimensionale di cui si nutre anche l’arte sonora più complessa e raffinata».
Il ritorno all’altro filone colto si concretizza nella chitarra classica di una giovane musicista, Federica Artuso, già allieva di Stefano Grondona, che ha registrato nel CD intitolato Papier-Mâché un programma di venti brani scritti da nove compositori appartenenti alla grande scuola ispanica, utilizzando due particolarissime chitarre, costruite entrambe dal liutaio Fabio Zontini, in quanto la loro cassa armonica è stata realizzata in cartone, fedeli riproduzioni della leggendaria chitarra FE14, per l’appunto la Papier-Mâché , creata nel 1862 da colui che è passato alla storia come lo “Stradivari delle sei corde”, ossia Antonio de Torres Jurado, e conservata oggi al Museo della Musica di Barcellona. L’andaluso Torres decise di costruire una chitarra classica in
cartone per dimostrare che si poteva ideare uno strumento capace di riprodurre suoni e timbri unici nel loro genere senza ricorrere al legno, e il milanese Zontini da quasi vent’anni porta avanti questa tecnica rivoluzionaria costruendo chitarre in cartone, due delle quali, per l’appunto, realizzate tra l’aprile e il settembre 2023 ed entrambe pesanti (si fa per dire) appena 995 grammi, oltre a montare corde in budello naturale, sono state appositamente utilizzate da Federica Artuso per registrare questo disco, catturato mirabilmente da Marco Lincetto. Il brano tratto dal CD della giovane chitarrista classica, Milonguea del Ayer , appartiene a un famoso chitarrista argentino della prima metà del Novecento, Abel Fleury, in bilico tra tradizione colta e quella folklorica.
Anche gli ultimi due brani presenti nella tracklist del sampler Velut Luna appartengono al genere classico. Il primo di essi è dedicato all’ Italian Music for Guitar and Piano , come recita il titolo del CD, e presenta composizioni per questo duo cameristico dell’immancabile Mario Castelnuovo-Tedesco, Franco Margola, Carlo Mosso, Adriano Lincetto (padre di Marco), Luigi Giachino e Giuseppe Crapisi, interpretate da Lapo Vannucci alla chitarra e da Luca Torrigiani al pianoforte. Un tributo, quindi, a una tradizione che nella cultura musicale del nostro Paese non si è mai sopita, anche in un secolo così “rivoluzionario” come il Novecento, allorquando,
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come scrive giustamente Ennio Speranza nelle note introduttive al disco «diversi compositori sono riusciti a ottenere degli splendidi risultati attraverso un sapiente lavoro sui “pieni” e suoi “vuoti” dei rispettivi strumenti, un’attenzione tutta particolare a un dialogo non convenzionale, una scrittura filigranata e, ovviamente, una buona dose di istinto che non guasta mai. Il disco che avete tra le mani è la testimonianza di tali esiti e vede una collana di lavori originali per chitarra e pianoforte composti tra il 1950 a oggi di autori italiani noti e meno noti». E tra gli autori che non vantano ancora una dovuta fama presso il grande pubblico c’è il torinese Luigi Giachino, il quale ha composto appositamente per il duo Vannucci & Torrigiani il brano Il silenzio del tempo ,
scritto nel 2015 e registrato in prima assoluta mondiale, di cui il secondo tempo, intitolato Ineluttabile , è stato inserito nel sampler . Si tratta di una suite tinta di venature jazz e di sapori quasi impressionisti. Il tempo qui proposto, continua a spiegare Speranza nel booklet , «è un vibrante, incisivo, ostinato che vede frequentissimi cambi di metro quasi alla maniera di un pezzo progressive rock senza rinunciare però a improvvisi squarci di lirismo». L’ultimo brano è un atto d’omaggio per Adriano Lincetto, tratto da Adriano Lincetto - Legacy, formato da sei volumi racchiusi in un Pendrive da 32GB che contiene tutte
le registrazioni delle opere del compositore padovano. Tra queste c’è la Suite I Sogni di Gianò, di cui il Finale, eseguito dall’Orchestra di Padova e del Veneto diretta da Fabio Framba, ci riporta alla grande tradizione della scuola veneta, con una melodia, enunciata dagli archi, che esprime una nobiltà di visione, mentre il secondo tema vede il flauto prima e l’oboe poi dialogare con gli archi, fino al subentrare del tremolo che porta alla conclusione.
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A duecento anni dalla nascita, abbiamo voluto ricordare la figura del grande compositore austriaco, evidenziando quegli aspetti che hanno impedito di riconoscerne la sua genialità e che a lungo lo hanno separato dalla grandezza che merita, oltre a offrire una guida all’ascolto della sua musica sinfonica e una discografia selezionata. Anton Bruckner, il grande incompreso di Andrea Bedetti
Anton Bruckner, in una fotografia della maturità, accanto al suo pianoforte.
Di fronte a una figura, come quella di Anton Bruckner, così schiva, mite, timida, votata unicamente alla musica e alla fede verso Dio, e la cui vita è di una modestia a dir poco imbarazzante, il fatto di poterne parlare in occasione del secondo centenario della sua nascita fornisce la possibilità di abbozzare un quadro d’insieme, in cui i pochi eventi biografici si possono collegare con la sua geniale produzione sinfonica così a lungo sottostimata, incompresa, fuorviata e osteggiata più o meno apertamente. Ma anche adottando tale stratagemma, per presentare soprattutto a favore di coloro che non conoscono né Bruckner né la sua musica, non si può fare a meno di osservare che il compositore austriaco, come uomo e come artista, resta e resterà inevitabilmente un
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enigma misterioso e affascinante, la cui unicità storica rischia di essere ancora fraintesa. D’altronde, indagando sugli eventi che hanno contraddistinto la sua vita e la sua opera, non ci si può meravigliare del fatto che il musicista di Ansfelden ebbe solo pochissimi amici che cercarono di sostenerlo a ritagliarsi il suo spazio nel mondo della musica di quell’epoca, in un ambiente così colmo di rivalità, di invidia, di gelosia e di vendetta, al punto da spingerlo, in un momento di grande delusione e di profonda amarezza, nonostante la sua incrollabile fede cattolica, a pensare addirittura al suicidio. Quel piccolo nucleo di sinceri estimatori, di cui fecero parte un giovane Gustav Mahler e i direttori d’orchestra Hermann Levi, Arthur Nikisch, Felix Mottl e Ferdinand Löwe, riuscì infine a farlo apprezzare al pubblico del tempo, specialmente a Monaco, cercando allo stesso tempo di creare anche una sorta di “cordone sanitario” per preservarlo dagli attacchi, a volte perfino meschini, che i sostenitori brahmsiani, acerrimi oppositori dell’universo musicale bruckneriano, così come l’influente Liszt dalla sua “roccaforte” di Weimar e il famoso direttore d’orchestra Hans von Bülow, oltre al temuto “critico dei critici”, Eduard Hanslick, periodicamente gli lanciarono. Questi strali furono lanciati contro un uomo decisamente remissivo, un artista rimasto ancorato alla cultura contadina del Vorarlberg, il territorio a nord dell’Austria nel quale era nato, dotato di una cultura limitata e senza alcuna pretesa intellettualistica e che, a livello musicale, oltre alla già citata cerchia di amici e ammiratori, fu difeso solo dal critico viennese Theodor Helm. Ma, al di là del fatto che solo alcune sinfonie di Bruckner cominciarono ad essere apprezzate soltanto verso la fine della vita del compositore, è indubbio che la sua fama di artista fu solo postuma, grazie ai diversi circoli bruckneriani che dopo la sua morte su sono diffusi e moltiplicati un po’ ovunque nel vecchio continente. Così, a duecento anni dalla sua nascita e a centoventotto dalla sua morte, è il caso di fare finalmente un po’ di chiarezza sulla grandezza della figura bruckneriana, che si può condensare con una sentenza dello stesso compositore austriaco, che suona come un ironico ossimoro, ossia un “genio senza talento”, liberandolo da inevitabili luoghi comuni accumulatosi inevitabilmente nel tempo e fissando meglio, prima di affrontare il suo corpus sinfonico, quei punti sui quali si basa la sua unicità creativa. È indubbio che le nove sinfonie di Bruckner (anche se il loro numero effettivo è di undici, se consideriamo la Sinfonia n. 00 in fa minore risalente al 1863 e la Sinfonia n. 0 in re minore detta Die Nullte , composta sei anni più tardi) si fondano e si riallaccino sotto l’egida della grande tradizione classica austriaca e più precisamente a quella schubertiana ma, a differenza della visione del compositore viennese, risulta lampante in Bruckner una strumentazione orchestrale più roboante e marcata, anche per via del fatto che il musicista di Ansfelden fu influenzato da Wagner nell’elaborare una tecnica armonica più ricca e articolata, plasmata anche dall’uso di particolari strumenti della famiglia degli ottoni, come il corno-tuba e la tuba bassa, capaci di esaltare quella tipica forma architettonica votata alla grandiosità e alla magniloquenza. Questa peculiarità, applicata alla materia sinfonica, ha fatto sì che la musica di Bruckner in tale genere musicale rappresentasse un unicum , un’unicità che, come si è già accennato, il musicista austriaco ha pagato a carissimo prezzo (non è un mistero che, prima di una fredda, diplomatica e tardiva conciliazione avvenuta durante un pranzo, Brahms
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avesse definito testualmente il collega un emerito «idiota» e che si fosse fatto beffe della sua religiosità, affermando che la sua musica era soltanto degna di «quei fratacci di Sankt Florian», riferendosi all’abbazia agostiniana dove Bruckner fu sempre di casa). A proposito della religiosità bruckneriana che si è riversata sulla sua musica, anche su quella squisitamente profana, come quella sinfonica: un annoso luogo comune punta il dito sulla tipica concezione organistica rintracciabile nella timbrica orchestrale del
Il potente e temuto critico viennese Eduard Hanslick, fiero oppositore della musica sinfonica di Anton Bruckner.
Una foto giovanile di Gustav Mahler, il quale fu allievo di Bruckner e uno dei suoi pochi estimatori. Altro punto da chiarire è quello che riguarda i presunti influssi wagneriani sulla scrittura compositiva di Bruckner, al di là delle “citazioni” e dei tributi al sommo collega tedesco che il musicista austriaco immise nelle Sinfonie n. 3 e n. 7. Si è fatto spesso riferimento a come il compositore di Ansfelden abbia musicalmente applicato l’arte della transizione di tradizione wagneriana; ebbene, che Bruckner abbia ammirato Wagner non ci piove, ma che abbia mutuato tale tecnica per i propri fini non proprio: la sua architettura monumentale e metafisica non avviene attraverso una fase di transizione della componente armonica e melodica che non ha nulla a che fare con Wagner, né tantomeno nel copiare lo sfruttamento della sezione degli ottoni secondo musicista austriaco. Questa affermazione è sorta osservando come Bruckner abbia plasmato sulla partitura la strumentazione dividendola soventemente per famiglie, ricreando così quelle tipiche contrapposizioni di registri presenti nella musica organistica del secondo Ottocento (si pensi a un César Franck); inoltre, si è notato come il sontuoso flusso sinfonico si bloccasse improvvisamente trasformandosi in autentici muri sonori, dando vita a effetti timbrici simili a quelli dati da un organo attraverso la sovrapposizione delle tastiere e della pedaliera in più raddoppi; e, ancora, su come Bruckner abbia saputo creare delle combinazioni di due o più linee melodiche, spesso affidate alla famiglia dei legni, in grado di dialogare contrappuntisticamente fra loro, cosa che si può fare con un organo che dà avvio a un divertimento di fuga suddiviso fra i due manuali. In realtà, quando Bruckner componeva in sede sinfonica non pensava all’organo, ma metteva a disposizione della sua strumentazione una dimensione metafisica, spirituale, addirittura liturgica, se vogliamo, capace di trasformare la massa orchestrale in un “respiro divino” in grado di trasmettere una vera e propria “febbre creatrice”.
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le modalità del musicista tedesco. Che in ambito sinfonico nessuno abbia utilizzato strenuamente gli ottoni come Bruckner è pacifico, ma questo non significa che tale uso ricalchi il modello wagneriano, in quanto il timbro evocato dalle partiture bruckneriane trasfigura quello fatto dal collega tedesco. Se quest’ultimo inserisce gli ottoni nello sviluppo orchestrale, è il musicista austriaco ad ampliare ulteriormente la loro paletta espressiva, portando a una loro risolutiva emancipazione a scapito della loro usuale complementazione. Le sinfonie Al di là delle due primissime sinfonie, le già citate n. 00 in fa minore e la n. 0 Die Nullte , che non rientrano nel computo effettivo, forse per rinnovare il mito delle colonne d’Ercole relativo alla Nona sinfonia beethoveniana, che non avrebbe mai dovuto essere oltrepassato dai futuri compositori, la Sinfonia n. 1 in do minore , composta tra il 1865 e il 1866, rientra tra quelle ingiustamente più sottovalutate del corpus bruckneriano. Al di là di innegabili influssi provenienti da Beethoven e da Schubert, fin da questa prima prova “ufficiale” sono già lampanti le caratteristiche dello stile del nostro autore, nella fattispecie grazie alla già evidente costruzione polifonica e per via dei tipici crescendo, che si manifestano come una forza primigenia nel primo e nell’ultimo tempo. E che questa prima creazione sinfonica sia già importante, è confermato dal fatto che Bruckner la considerò negli ultimi anni della sua vita tra le opere migliori e più difficili da lui composte per l’audacia di alcune idee e di alcuni sviluppi strumentali,
al punto che la sua esecuzione, all’inizio, risultò pessima proprio per le difficoltà tecniche che gli orchestrali furono costretti ad affrontare. Un’audacia che si manifesta sin dalle prime battute del primo tempo, un Allegro, contraddistinte da un ritmo di marcia che si tramuta in un trascinante irrompere dei tromboni che assurgono a una visione eroica, spezzata dal sorgere del secondo tema, intriso da un intenso sentore lirico. Allo stesso modo di grande impatto è il motivo che contraddistingue l’Adagio che segue, la cui caratteristica è data da una sorprendente ricchezza della linea melodica, dietro la quale, grazie all’indubbia efficacia della strumentazione orchestrale, si celano venature di rara efficacia psicologica. Lo Scherzo, poi, ha in sé quelle caratteristiche formali e timbriche d’impatto che saranno uno dei punti di forza assoluti del sinfonismo bruckneriano; qui, a dominare la scena, è l’esplosione di temi di chiara matrice popolare, così cari all’immagine legata alla cultura contadina e rurale vissuta dall’autore fin dalla primissima infanzia, mentre il Trio centrale fa quasi da controcanto al tema iniziale di questo tempo, visto che il compositore si lascia andare ad atmosfere danzanti che richiamano il gusto viennese. Ma è
Il musicista e musicologo Johann von Herbeck, che aiutò Bruckner nella revisione di alcune sinfonie.
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con il tempo conclusivo, il Finale, che questa sinfonia raggiunge il climax assoluto; la sua struttura e la sua drammaticità portano l’orchestra a dare vita a picchi timbrici di straordinaria efficacia, i quali lasciano poi campo a un segmento cantabile atomizzato dall’irruzione di un portentoso fugato, la cui funzione porta a una conclusione nella quale l’orchestra raggiunge il punto massimo di espansione timbrica. Con la Sinfonia n. 2 in do minore si viene a realizzare uno dei classici modi di operare in ambito sinfonico da parte di Bruckner, ossia la volontà di revisionare diverse delle sue opere in questo genere musicale, dando origine a differenti versioni di uno stesso lavoro. Nello specifico, questa sinfonia fu realizzata fra il 1871 e l’anno successivo, mentre nel biennio 1875-76 fu sottoposta a una revisione radicale da parte dell’autore con l’aiuto
di Johann von Herbeck e una terza ed ultima versione fu ancora apprestata nel 1877, la quale rappresenta quella che viene normalmente eseguita e registrata. Ora, rispetto alla Sinfonia n. 1, questa seconda opera rappresenta un passo indietro, in quanto Bruckner dovette far fronte a problematiche non indifferenti, le quali possono essere riassunte nella perniciosa influenza degli ambienti intellettuali viennesi e, di conseguenza, nel timore di agire in contraddizione con lo spirito conservatore incarnato dagli esponenti della cultura accademica dell’epoca, senza dimenticare la preoccupazione da parte del nostro autore di rendere il proprio linguaggio troppo difficile attraverso una scrittura strumentale alla quale gli orchestrali del tempo non erano di certo avvezzi. Alla luce di questi fattori, risulta chiaro il fatto che Bruckner dovette sentirsi in un certo senso “paralizzato” nel poter esprimere ancora quello stile aggressivo e “rivoluzionario” che aveva caratterizzato la sua Prima sinfonia. Questa specie di “paralisi” creativa può essere chiaramente percepita dal fatto che Bruckner si preoccupò di semplificare il flusso del discorso strumentale ricorrendo all’espediente di usare ampie pause nel corso della divisione dei singoli elementi o nello sviluppo tematico (ecco perché
Due direttori d’orchestra che contribuirono alla diffusione delle sinfonie bruckneriane; a sinistra, Hermann Levi e, a fianco, Felix Mottl.
quest’opera fu ben presto soprannominata dalla critica Pausen-symphonie ). Ma, con il senno del poi, non dobbiamo forzatamente considerare tale espediente un limite, ma inquadrarlo sia nei confronti della sinfonia in questione, sia in una prospettiva futura a largo raggio, nel senso che tale artificio fu argutamente utilizzato da Bruckner senza castrare la sostanziale originalità che contraddistingue l’intera arcata della Sinfonia n. 2, così come considerando l’espediente della pausa in sé quale elemento equilibratore del quale fece ampiamente uso nelle sinfonie successive. Ma, al di là
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di tali aspetti, vi sono altri elementi presenti in questa sinfonia che meritano di essere evidenziati, a cominciare da quello generale, dato dall’esaltazione di un clima musicale che risente dalla tradizione popolare. Basterà ricordare il secondo tema del primo tempo, con il gioco enunciato dai secondi violini, il quale ha un sentore eminentemente folkloristico, quello dello Jodel dell’Alta Austria, già sfruttato in passato da Haydn e da Schubert. Un altro spunto interessante è fornito dall’Andante che segue, la cui forma ricalca quella del rondò e il cui impiego diventerà usuale nei tempi lenti delle successive sinfonie
Johannes Brahms, qui in uno scatto risalente al 1894, fu un nemico delle opere sinfoniche di Bruckner, anche se poi in tarda età volle rappacificarsi con il collega di Ansfelden.
bruckneriane. Il sapore popolareggiante emerge ancora nello Scherzo, contraddistinto dalla ormai tipica possente struttura orchestrale all’unisono, un sapore che appartiene alla tradizione musicale della Bassa Austria, incarnato dal tema principale di questo terzo tempo. Infine, il Finale si fonde sull’equilibrio formale del rondò con la sonata; tutto questo ultimo tempo presenta un’arcata che si esprime mediante tre temi e una citazione (altrettanto importante in Bruckner è la pratica del rimando, quasi sempre originata da una citazione proveniente da una sua opera sacra); in questo caso, il rimando proviene dall’ Eleison finale della Messa in fa minore, composta nel 1868. Affrontando il discorso che riguarda la Sinfonia n. 3 in re minore non si può non raccontare quanto avvenne nel corso della sua prima esecuzione, diretta dallo stesso Bruckner la sera del 16 dicembre 1877 a Vienna. Prima, però, è il caso di ricordare che la prima versione della Terza sinfonia, dedicata con ammirazione a Richard Wagner, risale al dicembre del 1873, poi Bruckner apprestò una seconda versione nel 1877, ossia quella presentata miseramente alla Musikverein di Vienna e, infine, una terza versione che il compositore di Ansfelden effettuò nel 1889 e che fu diretta il 21 dicembre dell’anno successivo a Vienna da Hans Richter con esito decisamente più felice. La resa dei conti che avvenne, a discapito del povero e avvilito Bruckner, tra il compositore e l’ establishment musicale viennese durante quella serata del 1877, fu soltanto l’ultimo anello di una infausta catena che aveva preso forma allorquando il musicista era approdato nella capitale asburgica nove anni prima. Fin da subito, l’altezzoso e intellettualistico ambiente musicale viennese aveva fatto fatica ad accettare Bruckner, la cui figura impacciata e contadinesca, a dir poco trasandata nel vestire, talvolta rozza nel proporsi e nell’atteggiarsi, aveva suscitato ilarità e ammiccamenti ironici nelle aule dell’università e delle sale del conservatorio. Ma nell’autunno del 1877, la Gesellschaft der Musikfreunde offrì finalmente a Bruckner l’opportunità di presentare il suo ultimo lavoro, ossia la Sinfonia n. 3, in un concerto dei Wiener Philharmoniker diretto da Josef Hellmesberger. Quel lavoro stava particolarmente a cuore dell’autore, poiché era stato creato come un atto di venerazione nei confronti di Wagner, con lo stesso compositore austriaco che era arrivato al punto di recarsi personalmente a
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Bayreuth per offrire con deferenza la partitura a Wagner, il quale, anche in quella occasione non si smentì in fatto di arroganza e di protervia, visto che Bruckner fu costretto ad aspettare per qualche ora nell’anticamera, ricevendo alla fine elogi da parte del dedicatario, anche se non siamo per nulla certi che fossero sinceri. Prima di arrivare a quella famosa sera di dicembre del 1877 avvennero però due fatti che minacciarono di far saltare il concerto: la morte improvvisa di Johann von Herbeck, ossia di colui che aveva fortemente caldeggiato l’esecuzione del nuovo lavoro sinfonico di Bruckner, e la rinuncia di Hellmesberger a dirigerlo sul podio della Musikverein viennese. A quel punto, lo stesso Bruckner decise che sarebbe stato lui a dirigere l’orchestra. Ma quello che avvenne poi ha quasi dell’incredibile, visto che buona parte degli orchestrali, anch’essi nemici dichiarati della musica che avrebbero dovuto eseguire, decisero di boicottare
la partitura durante l’esecuzione, inserendo volutamente note sbagliate sotto lo sguardo disperato e furioso del suo autore. Ne venne fuori un’interpretazione che praticamente non aveva nulla della partitura originaria, con il risultato che nel giro di qualche minuto ci fu una sanguinosa fuga da parte di quasi la totalità degli spettatori in sala, i quali, andandosene, si lasciarono perfino andare ad insulti e a scherni proferiti ad alta voce nei confronti di Bruckner. Rimasero solo una decina o poco più di presenti, in maggioranza suoi allievi di Conservatorio del compositore, fra i quali Gustav Mahler e Hugo Wolf, i quali lo applaudirono mentre Bruckner piangeva a dirotto. A completare il quadro catastrofico di quella serata da incubo, ci pensò la velenosa recensione di Hanslick pubblicata due giorni dopo sulle pagine del quotidiano Neue Freie Presse . Basterà leggere le poche righe che seguono e che riguardano quella celeberrima stroncatura per poter comprendere meglio come quello scritto intinto nel vetriolo diede di fatto inizio alla guerra tra Hanslick, in nome di Brahms, e lo stesso
Ancora Anton Bruckner in una foto del 1868, all’epoca in cui andò a vivere a Vienna.
Bruckner che, volente o nolente, si trovò gettato inconsapevolmente in questa logorante e per certi versi vergognosa querelle per molto tempo. Quel passaggio di Hanslick recita testualmente: «Ci rincrescerebbe molto arrecare un dispiacere al compositore da noi sinceramente stimato come uomo e come artista, che tanta onestà dimostra nel fatto artistico da cimentarvisi raramente, perciò preferiamo confessare in tutta modestia che non abbiamo capito la sua gigantesca sinfonia. I suoi intenti poetici non ci sono risultati chiari - forse una fusione tra la Nona di Beethoven con la Valchiria di Wagner, che finisce di precipitare sotto gli zoccoli del suo cavallo - né siamo riusciti a comprendere la vera coerenza musicale».
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Ad ogni modo, entrando nello specifico della cosiddetta Wagnersymphonie , come fu poi soprannominata, non mancano momenti davvero memorabili, come quello offerto dall’ incipit , solenne e grandioso, con cui ha avvio il primo tempo, Mehr langsam, con il tema principale enunciato vigorosamente dalla tromba, il quale lascia poi spazio a un nuovo materiale tematico annunciato dalle trombe e dai tromboni e che si estende a tutta la compagine orchestrale coinvolta in un crescendo di grande effetto timbrico. L’Adagio che segue è suddiviso in tre temi: il primo delicatamente cantabile, il secondo più marcatamente sentimentale e il terzo più introspettivo e spirituale. Ma è, ancora una volta, nello Scherzo che si presenta il Bruckner più autentico e geniale, grazie a un’atmosfera di danza di spiccato gusto viennese che percorre l’intero tempo, che culmina in un nostalgico Ländler . Il Finale, al contrario, rappresenta il tempo meno convincente di tutta la sinfonia; se il tema principale è assai simile a quello iniziale del primo tempo, in modo da evidenziare la natura ciclica della sinfonia, prima che prenda avvio la maestosa coda affiora un ritmo di danza su un corale enunciato dagli ottoni, anche se il risultato appare alquanto magniloquente e poco efficace nella resa orchestrale. All’interno del corpus sinfonico di Anton Bruckner, solo la Sinfonia n. 4 in mi bemolle maggiore , oltre ad essere con la Sinfonia n. 7 la più conosciuta ed eseguita, vanta un titolo di carattere descrittivo voluto dall’autore, ossia quello di Romantica . Ed è proprio con questo celeberrimo lavoro sinfonico, creato nel corso di uno dei periodi più difficili e incerti della sua vita, che il compositore austriaco ottenne il primo, timido successo nel corso di un’esecuzione pubblica, permettendogli di dare avvio a quel lento ma progressivo consolidamento della propria professione e a rendere più accettabile la sua situazione economica. La Sinfonia Romantica venne ultimata alla fine del novembre 1874, ma subito dopo, ancora una volta, Bruckner decise di rimettere mano alla partitura, intervenendo pesantemente per rendere l’opera più fruibile, sia a livello esecutivo, sia sotto l’aspetto dell’ascolto. Questa prima revisione si protrasse fino alla fine del settembre 1878, senza dimenticare che nel novembre di quello stesso anno il compositore confezionò un nuovo Scherzo, quello che descrive l’azione della caccia, destinato a diventare uno dei più celebri tempi della storia del genere sinfonico. Neppure questa nuova versione, però, riuscì a soddisfare l’esigente compositore, che volle riscrivere buona parte del Finale. Finalmente, il 20 febbraio 1881, la Romantica fu eseguita in prima assoluta alla Musikvereinsaal viennese, diretta da Hans Richter. Ma le vicissitudini della partitura, nonostante il successo di quella prima esecuzione, non finirono, visto che a rimetterci mano, più o meno arbitrariamente, furono dapprima il direttore Felix Mottl (nel dicembre 1881 a Karlsruhe, con la prima esecuzione di un lavoro sinfonico di Bruckner in Germania) e il collega Anton Seidl. Inoltre, la prima edizione a stampa, curata dal musicologo Ferdinand Löwe, ritoccata nella strumentazione con il consenso dello stesso Bruckner, fu sostituita da quella stabilita nel 1936 da Robert Haas, sulla base del materiale relativo alla prima esecuzione, a sua volta soppiantata dalla nuova edizione critica e definitiva di Leopold Nowak uscita nel 1975. Ancora una volta, Eduard Hanslick ci mise lo zampino, cercando di boicottare Bruckner e la sua musica. Infatti, nel 1875, ossia pochi mesi dopo aver terminato la prima stesura della Sinfonia Romantica , il potente critico viennese fece in modo che fosse respinta la richiesta del compositore di ottenere un incarico all’Università di Vienna, cosa che lo
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