GrooveBack Magazine 002

tenue, perfino sconfinante nel cantabile, e che si chiude sulle note di una fanfara esultante che annuncia l’irruzione del terzo ed ultimo tema, votato, contrariamente ai primi due, a un vigore ritmato. Se il primo tempo è un flusso indistinto, l’Adagio che segue evidenzia una frattura nella proposizione dei due temi che lo formano e che si alternano tra quello che trasforma la massa orchestrale in momenti di fermento timbrico e quello, opposto, nel quale le varie sezioni strumentali si abbandonano a ritagli riflessivi, quasi di raccoglimento religioso. Lo Scherzo, sempre un punto di forza e di riferimento nell’universo bruckneriano, attinge dal primo tema dell’Adagio e lo adatta alle necessità plastiche e formali date dal contesto nel quale è ospitato, quindi esasperando quel fermento in un affanno che, a tratti, tracima in eruzioni timbriche che rasentano sentori collerici, anche se il Trio centrale, condito dal sottile dialogo tra flauti e corni, cerca di rasserenare e di stemperare il costrutto musicale. Il Finale della sinfonia è stato definito, reputo giustamente, un esempio supremo di come Bruckner fosse in grado, anche per via della sua padronanza della scrittura organistica, di maneggiare l’arte della fuga e del contrappunto, sulla quale aleggia lo spirito della Sinfonia Corale di Beethoven, visto che per instillare un afflato di ciclicità, il compositore austriaco immette gli elementi introduttivi dei temi precedentemente utilizzati. Inoltre, desumendo dalla grandiosa complessità di questo Finale, non si può fare a meno di rimarcare la genialità di quel passaggio, conchiuso nella prima cellula motivica, rappresentato da una fuga che si trasfigura, passando al tema successivo, in un delizioso incedere viennese per poi articolarsi, eroicamente, in un imperioso corale enunciato dai fiati. Se si dovesse utilizzare un approccio fornito dal pensiero filosofico di Søren Kierkegaard, si potrebbe affermare che se la Sinfonia n. 5 rappresenta, come si è visto, il cuore etico della visione bruckneriana, la Sinfonia n. 6 in la maggiore incarna il passaggio a una dimensione religiosa, non tanto sotto l’aspetto meramente fideistico del termine, quanto di apertura futura alle dimensioni, alle concezioni, alle profondità offerte dal fantasmagorico trittico delle ultime tre sinfonie. Non per nulla, dopo aver ultimato la stesura della Sinfonia n. 6, che lo tenne occupato tra il 1879 e il 1881, Bruckner, quasi sorretto da un supremo anelito creativo, mise subito mano alla composizione della Sinfonia n. 7. Forse, anche per via di questa simultaneità che lo portò a dare vita a quello che viene considerato, soprattutto tra i musicofili, il suo capolavoro assoluto, la Sinfonia n. 6, per via della sua ricerca espressiva, del linguaggio che la permea e perfino per le sue dimensioni ridotte rispetto alle altre opere del corpus sinfonico bruckneriano, è sempre stata vista e recepita come una pagina minore, se non addirittura il “brutto anatroccolo” della situazione. Semmai, questa, tra tutte le sinfonie del compositore di Ansfelden, resta tuttora la più incompresa, in quanto va a ispessire ulteriormente quel senso di ripiegamento riflessivo che già aveva contraddistinto la Sinfonia n. 5. Un universo riflessivo tale da tramutarla in quella maggiormente confidenziale e intimistica (è nota la battuta con la quale lo stesso Bruckner volle identificarla, « Die Sechste ist die Keckste », vale a dire “la Sesta è la più sfacciata», nel senso “la più sincera”). Questa sincerità, espressione di un profondo sentimento sacro, non viene resa attraverso il consueto sfarzo orchestrale, soprattutto dalla sezione degli ottoni, anche se non mancano i fff , al punto di poter affermare che questo lavoro, in fondo, ricalca maggiormente lo schema di una sinfonia storico-ottocentesca più che

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