GrooveBack Magazine 002

una donna di rara bruttezza e irrimediabilmente malata. Visconti, e ciò vale anche per Tarchetti se avesse avuto la possibilità di ascoltare questa sinfonia, comprese perfettamente che lo sprigionarsi, l’eruttarsi, lo srotolarsi coinvolgente e affascinante di quest’opera è basato sull’ammaliante e disturbante toccarsi degli estremi, di ciò che apparentemente a prima vista sembra inconciliabile, ma che poi, invece, diventa possibile, attuabile, con il logico capace di accettare in sé l’illogico (Hugo Wolf, che fu allievo di Bruckner e che morì a soli quarantatré anni in un manicomio, fu un entusiasta sostenitore della Sinfonia n. 7, nella quale si riconosceva totalmente). E, come se non bastasse, questo capolavoro fu dedicato da Bruckner a un altro personaggio passato alla storia più che altro per la sua “pura pazzia”, ossia Ludwig II di Baviera, ossessionato dalle sue esaltazioni e dalle sue patologiche fragilità. Come, dunque, non dare ragione a Hanslick quando cercava di mettere in guardia dalla meravigliosa e putrescente malia che si annida nella partitura di questo memorabile lavoro sinfonico? Come ci ricorda la storia, la prima esecuzione della Sinfonia n. 7, diretta da Arthur Nikisch, fu un vero e proprio evento, poiché non solo fu accolta con ovazioni da parte del pubblico, ma ricevette anche nei giorni successivi recensioni entusiastiche. Questo successo fu ulteriormente confermato, pochi mesi dopo, dall’esecuzione di Monaco, quando la sinfonia fu diretta da un direttore “wagneriano” come Hermann Levi. E ciò non può stupire se si considerano gli indubbi richiami che avvolgono questo capolavoro in nome del grande musicista tedesco, a cominciare dal fatto che Wagner morì proprio durante la stesura di questa sinfonia, proseguendo poi nell’ incipit del primo tempo, l’Allegro moderato, con la sua proiezione di “melodia infinita”, la quale sale come una cattedrale timbrica e che ricorda le atmosfere parsifaliane e che sembra cedere alla fine da un momento all’altro per poi riprendere il suo estenuante cammino, anche se, a un attento ascolto, in realtà si comprende che ci si trova davanti a una straordinaria struttura che si suddivide, di volta in volta, in vari frammenti, ognuno dei quali rappresenta una creatura musicale perfettamente autonoma che si sovrappone a quella precedente e pronta ad essere fagocitata da quella successiva. Lo stemperarsi, il rendersi liquido trova poi elemento solido in due elementi motivici contrapposti, il primo di chiara matrice organistica, irradiato dai fiati, e l’altro, che coinvolge soprattutto la massa degli archi, maggiormente risolutivo e incisivo. Il leggendario Adagio che segue, una delle vette assolute della storia del sinfonismo, è un orizzonte sconfinato che non conosce limiti e che oscilla infinitamente tra due poli tematici che sono altrettanti sentieri emotivi da percorrere con il cuore trepidante, in balia dell’innocenza più pura da una parte e di abissi riflessivi dall’altra. Da qui inizia la scala di Giacobbe nella forma di un crescendo dato dalle spire degli archi che portano al dilaniante climax di questo tempo, al traumatico punto di rottura in cui l’orchestra letteralmente si ribella e che coincide, simbolicamente, con la notizia della morte di Wagner appresa da Bruckner; qui ha avvio la commemorazione funebre che il musicista di Ansfelden enuncia con commozione in memoria del suo “maestro”, un passaggio magico sorretto idealmente dalle quattro tube che Bruckner volle utilizzare proprio in nome di Wagner.

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