GrooveBack Magazine 002

D.F. : Ho sempre nutrito un’irrefrenabile idiosincrasia per l’arido cerebralismo dell’avanguardia sperimentalista novecentesca. Avevo la necessità di analizzare e comprendere a fondo i motivi che avevano condotto alla riduzione della musica a mero fatto noetico . Un’operazione che a mio parere si è rivelata fallimentare - a dispetto degli ottusi epigoni della Neue Musik che si ostinano a illudersi del contrario - perché ha dato origine a composizioni avulse da quella voluttà sonora che è una componente fondamentale nell’opera musicale per sedurre l’ascoltatore. Credo che se il principio musicale non s’incarna nella realtà tangibile toccando la dimensione emozionale, si risolva in un vacuo virtuosismo mentale. Detto in altri termini: se la composizione musicale non ha alla radice un sinolo di epicureismo intellettuale e di passione sensuale, risulta carente di stabilità, di densità, di fulgida comprensione. Da un lato, nei testi da lei citati, ho mosso una critica implacabile verso le principali teorie compositive del XX° secolo, rivelandone gli errori intrinseci e la sostanziale inadeguatezza; ma alla pars destruens ne ho affiancata una construens : un’attività compositiva intesa a far trasparire il mistero ineffabile del Bello Musicale . A.B.: Non le nascondo, Maestro Fontanesi, che è proprio questo aspetto relativo all’“epicureismo intellettuale”, che sarà anche intellettuale, ma è pur sempre epicureismo, oltre al suo anelare a un concetto di “voluttà sonora”, a generare in me qualche dubbio, nel senso che faccio fatica a immaginare un ascolto votato esclusivamente o precipuamente al culto della dea Bellezza, poiché personalmente vedo nell’arte musicale, e non sono di certo il solo, anche un processo cognitivo, legato a un principio di acquisizione, la cui funzione non è soltanto quella di “allietare”, ma anche di “arricchire”. Ora, lungi da me scimmiottare le tesi adorniane, ma se ascolto un valzer di Johann Strauss, posso sentirmi certamente allietato, ma se voglio arricchirmi, sempre che la dimensione musicale possa donare conoscenza, potrò abbandonarmi sia alla Quinta sinfonia di Beethoven sia, staccando la presa che mi collega alla dea Bellezza, al Moses und Aron di Schönberg. Ossia, a differenza di lei, forse avverto il fascino, il rapimento non solo innalzandomi, ma anche inabissandomi, laddove non regna il “bel suono”. È solo una questione di prospettiva o, secondo lei, c’è qualcos’altro? D.F. : Quanto lei sostiene è corretto a condizione di presupporre come possibile l’intellettualizzazione del mondo in generale e dell’opera d’arte in particolare. A mio avviso nell’esperienza dell’ascolto è invece centrale la fruizione estetica dell’opera musicale, il riconoscimento della sua “bellezza”, il quale è un atto che coinvolge le dimensioni e facoltà dell’essere umano - spirito intelletto e sensibilità - nella loro totalità. E ritengo altresì che la percezione del “Bello” in un’opera artistica possa essere tutt’al più incrementata, ma non certo determinata, dalla conoscenza della storia e genesi dell’opera o dalla comprensione della tecnica compositiva utilizzata da un artista per realizzarla o dal rinvenimento di altri fattori estrinseci. Un’estetica puramente intellettuale o “cognitiva” vede nella bellezza un concetto complesso da scomporre; in realtà la bellezza è una qualità intrinseca del capolavoro musicale, impossibile da ridurre a qualcos’altro che non sia essa stessa: è un’entità unica e indivisibile che trova nella nostra mente un’adeguata percezione. Ora, le do atto che, unitamente alla bellezza, la ragione umana ritrova fuor di dubbio nell’opera musicale altre proprietà in grado di soddisfarla esteticamente, ma si tratta sempre di un insieme di qualità di

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