GrooveBack Magazine 002

N. 11 in sol minore BWV 797, lontano da isterismi da tastiera, pensoso, modellato con suprema sensibilità e rispetto in un qualcosa di molto lontano dalle «piccole esplosioni» che Herbert von Karajan diceva dovessero essere adottate suonandolo. Dopo J.S. Bach c’è Chopin, con due studi inframmezzati da un Notturno. L’insieme non soffre d’improvvisi scarti o scalini, pur nella diversità di accenti, non c’è in Libetta la volontà di essere ligio a una lettura formale, per quanto raffinata ed elegante possa essere. Lascia percolare la partitura nel profondo e la fa riemergere con rinnovate sembianze, dopo essere passata dal vaglio della sua sensibilità. Passa agevolmente dal carattere meditativo e lirico del Notturno Op. 9 N. 2 alla drammaticità dello Studio in do minore Op. 10 N. 12 Rivoluzionario , eseguito con impeto, quasi una scossa elettrica dopo l’andamento sognante del Notturno. Il biografo Karasowski disse che il Rivoluzionario nacque di getto, come segno di drammatica ribellione dopo che Chopin seppe della presa di Varsavia da parte delle truppe zariste. Scuote gli animi e le coscienze in un soprassalto di vigoria, tanto attuale purtroppo, viste le guerre in atto nel mondo. Dal romanticismo si passa con irrisoria agevolezza al minimalismo di Philip Glass con l’Étude N. 9. La poetica di Philip Glass ed Ezio Bosso è differente ma non distante anni luce, parla di modernità, un nuovo che idealmente ben si concilia con quanto precede e segue. Francesco Libetta non si fa sfuggire l’occasione di umanizzare e rendere “poesia dotta” anche un tipo di musica nata dall’esigenza di rendere più accessibile quella dell’avanguardia astratta dei primi anni Sessanta, dai compositori minimalisti considerata “impossibile da ascoltare”. Fa spesso precedere al brano delle piccole improvvisazioni, poche note e accordi modulanti, quasi a prendere contatto con la tastiera, pesare con accuratezza la forza delle dita prima dell’esecuzione vera e propria. Screziato e totalmente privo di qualsiasi meccanicità il “suo” Domenico Scarlatti, cosa a questo punto intuibile. Non è un estro il suo che conduce a una qualsivoglia bizzarria, ma sempre ponderato e intrinseco alla materia sonora, appare dotato della preziosa virtù della discrezione, in lui adornata dall’amabilità, dote che l’avvantaggia nella Sonata K 208. Forte di un’eccezionale duttilità, abilità coloristica (pressoché infinita la sua “palette”), riesce a trasformare le sonorità del pianoforte in quelle di un clavicembalo, addomestica a suo piacimento uno strumento che Paolo Fazioli voleva fermamente fosse «luminoso, solare, espressivo, ricco di colori e potente». Libetta se ne frega e fa quello che vuole, realizza ciò che gli detta la sua suprema sensibilità d’artista. Nella Sonata in re minore K 141 la musica, letteralmente, cambia. Fulminee le sei semicrome ribattute, sciorinate in maniera cristallina; ma questa non è l’unica difficoltà di quest’impervio pezzo, ci sono anche molti idiomi caratteristici di Scarlatti, come l’incrocio delle mani. Cose che farebbero perdere la bussola al più consumato dei concertisti. Nelle Variazioni postume III-IV-V dell’Op. 13 di Schumann, Francesco Libetta appare particolarmente sorvegliato, come lo è stato d’altronde durante tutta la sua esibizione, in nome di quell’ideale fascia espressiva che ha voluto dominante. Per comprenderne le ragioni dobbiamo riandare con la memoria al grande Carmelo Bene, al suo concentrare il timbro in una certa area, stabilendo una “fascia” che gli consentiva di modulare l’espressione con maggior precisione. La fascia del

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