fiato, Lee Morgan (tromba), Curtis Fuller (trombone) e George Coleman (sax tenore e contralto), fecero di City Lights un piccolo case study accomunandolo a un’idea che lo stesso Clifford Brown aveva accarezzato, ma che non riuscì a realizzare compiutamente; un proposito che aveva sedotto lo stesso Coltrane in Blue Train e di cui Benny Golson, in varie circostanze, era stato l’autentico propugnatore. Perfino Miles Davis, in un particolare momento della sua carriera, aveva subito il fascino di un attacco a tre punte con due sassofoni (Coltrane al tenore e Cannonball al contralto) quali fiancheggiatori della sua tromba. Ovviamente, la presenza di un trombone assume un significato diverso nel tentativo di costituire una mini-orchestra con le varie sezioni fiati; in questo caso rappresentate da almeno uno strumento e supportate da una retroguardia ritmica. Nello specifico: Ray Bryant (pianoforte), Paul Chambers (basso) e Art Taylor (batteria). Fu proprio il prolifico Benny Golson a fornire tre componimenti originali su cinque e a curare gli arrangiamenti di questa sessione che, in quanto tale, non fu però contemplata nelle successive registrazioni con la medesima configurazione. Come vedremo più avanti nel successivo The Cooker i fiati saranno solo due e addirittura in Candy toccherà alla sola tromba di Morgan operare a tutto campo in prima linea. Per metafora, City Lights fa pensare all’omonimo film di Charlie Chaplin, in cui un errabondo Lee Morgan cerca il suo riscatto girovagando per la città di notte, dove le luci fanno da cornice a un viaggio senza un precisa meta. L’impatto è immediato e descritto in maniera mercuriale dalla title-track che funge da opener , in cui l’effetto cinematico spalanca le porte alle urgenti invenzioni della tromba del band-leader , sempre su di giri, come se volesse portare il sonoro della pellicola a una velocità superiore rispetto a quella consentita da una normale proiezione. Al contempo il walking del basso di Chambers, che descrive una figura a due note, s’innesta nella progressione di Ray Bryant impostata sul registro superiore, mentre i fiati assumono toni drammatici scivolando perfettamente sulle diminuite e sull’incessante lavorio del kit percussivo. Il sax tenore di George Coleman spazza improvvisamente l’aria come un tornado, mentre Morgan, come un lanciafiamme, sputa fuori un assolo di tromba spostandosi sul registro acuto, foraggiato dalle retrovie dall’apporto ritmico di un attentissimo Taylor, la cui interazione non lascia aria ferma. Il trombettista diventa il vero anfitrione in Tempo De Waltz , a firma Golson, mentre Coleman si rifugia, nelle sue linee fluide, già sperimentate, sicure e più convenzionali, tirando fuori gli attrezzi del mestiere che guardano nello specchietto retrovisore inquadrando lo stile del «vecchio» Benny Carter al contralto. Il trombone di Fuller aggiunge un sapore ancora più retrò. Tuttavia, nihil sub sole novi . You’re Mine You , con la sua struttura lignea da salice piangente e un’aura vagamente luttuosa, sembra non trovare un punto di confluenza collettivo, nonostante l’abilità delle singole forze in campo. Per paradosso, Lee Morgan avrebbe potuto suonare anche da solo. Just By Myself , srotolato sulla lunghezza di oltre nove minuti e una moderna rapsodia composta da Golson, che costringe Morgan a cavalcare a briglie corte e a mantenersi su un tempo medio, mentre il trombone di Fuller ricama gli interstizi dell’ampia tessitura sonora.
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