sperato, lacerando la fragile personalità di Morgan, già piuttosto compromessa dall’uso di narcotici. La title-track , nonché brano di apertura, è un’odissea di quindici minuti che viaggia sulla sospensione e imprevedibilità, ma sorretta da un sostanzioso e stabile costrutto armonico, risucchiando continuamente l’ascoltatore in un’atmosfera introspettiva, con paesaggi sonori mutevoli che alimentano la riflessione. Il line-up sembra inizialmente trattenuto come un cavallo che si muove agilmente al passo, ma con le redini corte, progressivamente gli strumenti iniziano a liberarsi dall’imbrigliatura, eseguendo dapprima un piccolo trotto, per poi giungere a un elegante galoppo: si parte da una vibrazione di basso di Reggie Workman che si fonde al tintinnio dei piatti di Billy Higgins, mentre Herbie Hancock tesse un ordito di trame modali. Tra un assolo e l’altro il tema ritorna al punto di partenza, lasciandosi alle spalle la pulsazione complessiva, come se l’ ensemble tentasse di dilatare il tempo e lo spazio. In fondo Search for the New Land è imperniato su pochi semplici cambi di accordi, sui quali gli strumentisti improvvisano modalizzando le melodie, mentre l’arrangiamento a maglie larghe fornisce loro la licenza di esplorare in maniera radicale. Ad esempio, il chitarrista Grant Green si sofferma su piccole figure e le ripete ossessivamente e, quando enuncia il tema principale, si allontana dalle sue note come se fosse alla ricerca di un altrove. Le soluzioni musicali proposte, se pur coperte da una patina di hard bop tradizionale, presentano una fioritura di elementi più evoluti e di trame più ricche di dettagli. L’incedere quasi divertito di The Joker , l’aura afro-cubana di Mr. Kenyatta , il nostalgismo cinematografico di Melancholee e lo spirito avventuroso di Morgan The Pirate nascono tutti da una forma di emotività più cruda e diretta, quasi alternativa alla prosopopea tipica dell’ hard bop , sempre molto ludico, trionfale e autocelebrativo. Morgan e il suo ensemble tentano di lasciarsi alle spalle i cambi di accordo e la melodia con la stessa determinazione dei propugnatori del free jazz . La «nuova terra» che creano diventa un’enclave democratica, dove ciascuno ha diritto di parola e nessuno resta ingabbiato nei limiti del tempo e dello spazio, ma il ruolo di ogni strumento è fluido e costantemente in lizza. A quel tempo Morgan era il più incensato trombettista dell’era post-davisiana, ma la sua esistenza e il suo operato avevano brutalmente deragliato sul binario della droga. Per far fronte alle proprie esigenze, Lee, tra la fine degli anni ’50 e la metà degli anni ’60, si guadagnava da vivere registrando a getto continuo, anche come sideman . Si racconta che sbattendosi da una sessione all’altra, spesso dimenticava gli spartiti sul sedile di un taxi o lo strumento in qualche studio. Come accaduto anche ad altri suoi colleghi hard bop : si potrebbe pensare a Jackie McLean, Joe Henderson e Wayne Shorter, i cui lavori più spinti in avanti e moderni, vennero congelati, rispetto ad altri che sembravano tenere vivo il fuoco dell’ hard bop . I più cattivi sostengono che alla Blue Note, la quale soffocava nei debiti, non si facessero scrupolo nel consentire, ai tanti musicisti tossicodipendenti o con impellenti esigenze di denaro, di sfornare instant album , veloci e ricavati con lo stampino, al fine di trarne un profitto reciproco, sia pur modesto. Tom Perchard, nel suo saggio intitolato Lee Morgan: His Life, Music And Culture racconta: «L’aria filtrava intorno al bordo del suono come un gas blu, non
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