acuti, per quanti timbratissimi, non erano del tipo che forano le tenebre; l’indole, poi, era più consona alle grandi espansioni affettive, al sin troppo richiamato «canto a fior di labbro», all’abbandono elegiaco. Veemenza e sangue negli occhi, non li si collega in genere all’idea di un’interpretazione di questo tenore. Eppure, Bergonzi, grazie all’accento e al canto sfumato, sospeso tra stupore e tormentata accettazione di un destino ostile, diede l’esatta misura del cupio dissolvi che in fondo domina questa parte romantica nel senso più storico del termine. Liberato infatti dal testo vittorughiano da cui trae origine, folto di dialoghi didattico-rivoluzionari, l’ Ernani di Verdi e Piave è riassunto da un fato non meno accanito e crudele di quello di Alvaro nella Forza del destino , e si accomuna, più che agli eroi, alle eroine sventurate di Bellini e Donizetti, con le quali condivide drammatiche scelte di vita, imposizioni feroci di parenti, giovinezze tragiche e segnate da rivalse secolari, e nel profondo dal senso dell’ineluttabilità della propria sorte. In modo molto appropriato, in questa edizione del 1967, il tenore mette in risalto il lato malinconico del protagonista, e lo fa con lo stile patrizio che informa di sé quasi tutte le sue interpretazioni. È un nobile che si comporta secondo precise regole, non solo cavalleresche, ma di casta: ovvero non è mai sopra le righe, non è mai plebeo, chiassoso, violento. Anche nell’infuriare del sentimento e nello scatto bruciante delle scelte rimane sempre uomo di mondo. Qualcuno, in proposito, ne ha contestato la tendenza a un coinvolgimento troppo casto, troppo misurato: con ciò indicando una pretesa incapacità di Bergonzi di immergersi in un’atmosfera infuocata e di emergerne con gesti clamorosi, accenti selvaggi, pose gladiatorie: l’Ernani del 1848, appunto, quello delle cosiddette smargiassate, pronto a far esplodere il pubblico con numeri circensi. Ma questo non era l’Ernani di Verdi - arruolato a forza nelle Cinque Giornate -, né quello di Bergonzi, che, abituato a leggere i segni d’espressione dell’autore e a rispettarli, estrasse dall’opera il significato autentico del protagonista di essa. Leontyne Price costruisce Elvira quasi connaturandola alla proprio debordante sensualità. La parte, del resto, si scollava dal modello codificato della donna come oggetto passivo tanto caro al primo romanticismo. E qui sta la trappola per l’interprete, dato che per questo personaggio l’interpretazione esige una duplicità d’espressione. Da una parte, l’accento deve essere rovente, intenso, serrato: deve esprimere risolutezza. Dall’altra, deve sapersi raccogliere nelle sfumature di un fraseggio lieve, dolce, toccante: deve esprimere quel lato soave, quasi impalpabile di un’anima rapita dal sentimento. Di certo, la Price per molti versi riesce nell’intento, per quanto l’aspetto imperioso e determinato lo si avverta ma non convinca completamente, mentre rifulge quello amoroso nel tripudio di una vocalità rotonda e palpabile. E fu un punto d’arrivo, spesso ineguagliato negli anni a seguire. Diseducati da letture orchestrali rinforzate dalle barricate milanesi del Quarantotto, ovvero da un Ernani che lancia mareggiate e blocchi di pietra, la lettura che Schippers diede dell’opera, all’epoca deluse più di un recensore. Il direttore statunitense, tuttavia, del tutto immune da psicosi ritmiche, si misura invece col lirismo pre-risorgimentale che intride quest’opera. Del resto, basta leggere il libretto per capire che con l’unità nazionale un simile lavoro non condivide nulla. In fondo, Verdi aveva già dato anche
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