che, invece, posso tentare di fare è parlare della produzione, delle atmosfere, direzioni e intenzioni del disco in esame. L’ascolto Ogni volta che esce l’opera di un gigante della musica vado a leggere cosa ne pensano i fan audiofili. È un giochino che faccio sempre per poi non stupirmi, quasi tutte le volte, di pensarla in maniera molto diversa, se non diametralmente opposta. Le critiche che ho letto più spesso riguardo a I/O concernono la famigerata “qualità sonora”. Però, un disco, nella stragrande maggioranza dei casi, suona esattamente come l’artista e/o il produttore hanno deciso che debba suonare. La pasta sonora è studiata meticolosamente, i colori sono scelti con cura e nulla è lasciato al caso. Questo perfino nei dischi che suonano “male”, come nel caso del metal estremo. Più volte ho letto che I/O non suona bene
perché la gamma dinamica è scarsa; è un po’ come dire che una torta di mele non è buona perché sono state utilizzate le mele Granny Smith al posto delle Golden. I/O ha una produzione semplicemente sontuosa. Straordinaria per una serie di motivi. Intanto il disco è stato pensato con tre mix differenti. Ohibò! Già solo per questa ragione l’obiezione su come suona va a farsi benedire. Tre missaggi diversi, opera di tre fonici diversi, tutti professionisti eccezionali. Tchad Blake si è occupato della versione del Dark-Side , Mark “Spike” Stent della Bright-Side e Hans- Martin Buff della versione Dolby Atmos , denominata In-Side. Non ho avuto modo di ascoltare l’ultima perché non posseggo un impianto atto allo scopo, quindi la tralascerò. Per l’ascolto di I/O ho adottato due approcci diversi. Prima ho ascoltato le due versioni
Tchad Blake
stereofoniche in successione, poi ho creato una playlist inserendo i brani in modo da ascoltare i due mix dello stesso brano consecutivamente, prima il Bright-Side e poi il Dark-Side. Va da sé che ascoltare un disco in due versioni differenti richiede un certo sforzo, reso maggiormente difficoltoso dal fatto che il disco è estremamente stratificato. In ambedue i mix la collocazione delle singole tracce è di precisione matematica; anche lo “strumento” più leggero è perfettamente percepibile, perfino nei momenti più densi. Si potrebbe scrivere un trattato di ingegneria del suono sul lavoro magistrale fatto da Blake e Stent. Da fonico (non più operativo) è per me una goduria immensa notare già solo come è stato usato il pan pot (ossia il comando che permette di collocare la traccia spazialmente tra i due canali sinistro-destro, per dirla in termini più comprensibili). La scelta di rilasciare il disco in tre versioni differenti mi offre il destro per una considerazione per me importante. I due missaggi sono così differenti da rendere i brani
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