GrooveBack Magazine 002

completamente diversi. Il colore e l’atmosfera delle canzoni cambia completamente la loro percezione, e questa scatena sensazioni ed emozioni diverse. Tutto ciò “semplicemente” (di semplice non c’è proprio nulla, anzi…) manipolando in maniera diversa, e molto invasiva, le singole tracce. Il tutto si traduce nell’ascolto di due dischi diversi. Né più né meno. Quale preferisco? Non posso dirlo con certezza assoluta. Certi brani li apprezzo di più dark, altri bright. Tendenzialmente mi piace di più la versione scura, ma ammetto candidamente di amare moltissimo la maestria di Tchad Blake (che, per inciso, è responsabile anche di Up, il precedente disco di canzoni inedite di Gabriel, il quale definì “magico” il lavoro di Blake). Però, e mi ripeto per l’ennesima volta, il lavoro è così eccezionale che esprimere una preferenza è

Hans-Martin Buff

oggettivamente molto complicato. Ora capirete perché quando leggo le rimostranze riguardo al suono di questo disco sorrido un po’. Nel momento in cui si ascolta un monumento sonoro (due monumenti, in realtà, e non immagino che cosa sia la versione in Dolby Atmos… ) di questa portata occorrerebbe sempre scegliere l’opzione più difficile: il silenzio. Bisognerebbe capire che di fronte al lavoro superlativo svolto da Blake e da Stent l’unica cosa da dire dovrebbe essere: “Grazie”. Le canzoni Quando mi accingo ad ascoltare un disco a me sconosciuto adotto un sistema che da molti anni mi aiuta a capire se quello che sto ascoltando desta il mio interesse o meno. Lo metto su (metaforicamente, poiché da molto tempo la maggioranza dei miei ascolti sono in streaming in alta risoluzione) e mi metto a fare altro. Di solito leggo. Ho provato anche a cucinare, ma è successo che ho fatto bruciare la pietanza con un disco che mi aveva esaltato (IRA di Iosonouncane - dedicategli tempo e concentrazione perché è un’opera meravigliosa) e allora ho abbandonato questa opzione. I/O non è sfuggito a questo approccio. Quello che è successo mi ha sorpreso e purtroppo non positivamente. Lo dico immediatamente: se dicessi che è un brutto disco direi una gigantesca boiata. È un gran disco, ma ho la spiacevole sensazione che sia costituito da outtakes dei dischi precedenti. Non mi ha distratto dalla lettura come avrei sperato, con alcune eccezioni. Playing for Time , Four Kinds of Horses , So Much , Love Can Heal e And Still sono canzoni straordinarie, di quelle che uno vorrebbe aver scritto. Gli altri pezzi non mi hanno lasciato nulla, e due di questi, Panopticon e Road to Joy (che mi ricordano rispettivamente Digging in the Dirt e Kiss That Frog ), vengono da me sistematicamente saltati perché proprio non li tollero. Per fortuna le canzoni vengono molto esaltate dalla fantastica produzione di cui ho parlato prima, per cui l’ascolto è piacevole, brani succitati a parte. Resta, però, quella sensazione di pietanza riscaldata che, invece, mi

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