Dizionario Enciclopedico di Psicoanalisi dell'IPA

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“Gli approcci relazionali contemporanei sono stati in gran parte caratterizzati dalla loro enfasi sulle qualità della partecipazione congiunta: interazione, intersoggettività ed il mutuo influenzamento, derivanti dall’interazione complementare e reciprocamente modellante del transfert e del controtransfert. Questi fenomeni possono essere particolarmente evidenti - con tutto il potere del loro dominio sull’inconscio - quando si cerca di chiarire il processo dell’enactment, che frequentemente assomiglia ad un campo minato...” (Bass, 2003, p. 658 citazione tradotta per questa edizione N.d.T). Irwing Hoffman (1994) descrive il pensiero dialettico come parte di questo approccio ed esamina, ad esempio, le implicazioni tecniche della specifica capacità del paziente di stabilire interazioni inconsce sull’autorità, sulla reciprocità e sull’autenticità dell’analista. Per Bromberg (1998, 2006) la mente è un paesaggio caratterizzato da stati del sé multipli e cangianti. L’enactment, nella situazione di trattamento, è il modo per avere accesso al contenuto, fino ad allora inaccessibile, di stati del sé isolati dal resto della mente. Secondo Bromberg (2006), Bass (2003), Hoffman (1994) e Mitchell (1997), è nel solco della tradizione relazionale che gli analisti contattino i loro mutevoli stati del sé alla ricerca di indizi su ciò che si sta muovendo all’interno dei loro pazienti. L’enactment occupa poi una posizione centrale nella teoria dei sistemi intersoggettivi. Questo approccio venne sviluppato da Robert Stolorow e al. alla fine degli anni ’80 e mette in luce gli aspetti interpersonali dell’approccio relazionale al trattamento. Nell’approccio intersoggettivo, si ritiene che gli enactment si sviluppino da stati relazionali dissociati e rappresentino forme di comunicazione interpersonale a partire da esperienze precoci e traumi del paziente, codificati a livello neuronale. La scuola intersoggettiva si ispira alla ricerca neuroscientifica ed agli studi sulla comunicazione non verbale dei neonati, dei bambini e dei loro genitori, quelli ad esempio di Beatrice Beebe e Frank M. Lachmann (2002). Ilany Kogan (2002), un’analista israeliana membro autorevole del Gruppo di Ricerca sul Trauma di Yale (Yale Trauma Research Team), ha studiato l’enactment nei figli di sopravvissuti all’Olocausto. Ella definisce il termine come “la compulsione a ricreare nella propria vita, attraverso atti concreti, le esperienze vissute dai propri genitori.” (2002, p. 25 citazione tradotta per questa edizione N.d.T). Questa è un’importante dimostrazione clinica che ci mostra con precisione come le narrazioni emozionali del nostro mondo interno possano rimanere escluse dalla coscienza e ciò chiama in causa la trasmissione intergenerazionale del trauma, la teoria di Freud della comunicazione interpersonale inconscia e, sebbene ella non ne faccia cenno, l’idea di Hans Loewald (1975) che l’analisi sia simile alla mimesi nell’arte drammatica, in questo caso la tragedia. Kogan differenzia il proprio uso dello “enactment” da quello di altri autori, ad esempio quello di Jacobs (1986), sostenendo di non intenderlo come specificamente concentrato sull’interazione immediata tra paziente ed analista. La sua concettualizzazione è più simile ad un’amalgama dell’acting-out ed acting-in freudiano e dell’attualizzazione di Sandler (1978) ed Eshel (1998). Ella utilizza il termine assieme a quello di “buco nero” (p. 255), una lacuna nell’informazione cosciente al centro della psiche, che tuttavia non è vuoto (si veda il concetto di Auerhahn e Laub (1998) del trauma dell’olocausto come “circolo vuoto” ed altri lavori sul trauma severo). Loewald (1975) parla di un’assenza

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