Dizionario Enciclopedico di Psicoanalisi dell'IPA

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configurazione contenitore/contenuto (cfr. in particolare il gruppo della Tavistock Clinic creato in Italia da Donald Meltzer e Martha Harris, con i lavori di Suzanne Maiello (2012) Michael Rustin e Margaret Rustin (1989, 2016, 2019). Nel campo dell’autismo, l’eccellente lavoro di Geneviève Haag (2018) approfondisce nei dettagli la differenza tra identificazione proiettiva e identità adesiva nelle patologie dello spettro autistico.

IV. APPLICAZIONI SOCIALI/CULTURALI/POLITICHE DEI PROCESSI DI IDENTIFICAZIONE PROIETTIVA

Il concetto di identificazione proiettiva è stato utilizzato da alcuni autori in campo psicoanalitico per contribuire alla comprensione di fenomeni quali l’abuso, il pregiudizio maligno e il genocidio. Vamik Volkan (1988) ha scritto molto sulla questione del perché le persone commettono omicidi nel nome di un sentire etnico, nazionale, religioso o ideologico condiviso. Sulla scorta dell’opera di Freud Psicologia delle masse e analisi dell’Io (1921) Volkan (Varvin e Volkan, 2003; Volkan, 2014a, Volkan, 2014b), Volkan si è concentrato sulla psicologia dei grandi gruppi, sui modi in cui tali gruppi affrontano la vergogna attraverso il disconoscimento e rafforzano l’identità attraverso l’esternazione e la proiezione. Ha coniato il termine “depositare per contribuire a spiegare come l’odio venga tramandato di generazione in generazione, in quanto gli adulti traumatizzati a causa di esperienze di guerra o di genocidi - che minacciano le identità dei grandi gruppi - depositino immagini traumatizzate di sé nella psiche in evoluzione dei propri figli. Grotstein (2004), da una prospettiva bioniana, osserva l’uso dilagante dell’identificazione proiettiva che i colonizzatori hanno adoperato per sottomettere le popolazioni indigene, sulla base del presunto imperativo morale di purificare i pagani. Kernberg (2003 a,b) cerca di affrontare la questione della dilagante violenza sociale, e descrive il bisogno di un grande gruppo di identificarsi e di seguire un leader carismatico per realizzare il proprio Io ideale e adottare un paranoico rigore ideologico. Allora l’“altro” viene disumanizzato e diventa il depositario di tutta la “cattiveria” proiettata, giustificando non solo l’orrore della violenza, ma talvolta innalzandola al livello di un imperativo morale. The Reproduction of Evil (2000) di Susan Grand utilizza la prospettiva relazionale contemporanea per indagare la natura del male a livello interpersonale, come forma di relazione tra il perpetratore e la vittima. Descrive il processo per cui il “soul murder” di una vittima produce la formazione di un intollerabile “no self “, che può essere estirpato soltanto attraverso la trasformazione in un perpetratore che evacui questo aspetto disumanizzato nella propria vittima. Grand spiega che la creazione dell”’altro da sé” (“othering”), ossia la creazione di una vita umana considerata sacrificabile, implica la formazione di una relazione “Io-cosa” (Buber, 1937), per cui l’oppresso perde la sua umanità e viene considerato una cosa. Questa vittima- cosa deve allora essere distrutta, poiché è diventata la depositaria del “terrore” del perpetratore. In tal modo Grand riesce a spiegare chiaramente il modo in cui il male si crea e si riproduce

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