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V. C. Prospettive interpersonali e relazionali Originario del Nordamerica, Harry Stack Sullivan (1953, 1964) ha inteso la psichiatria fondamentalmente come lo studio delle relazioni interpersonali, ed ha elaborato una concezione del sé e del suo sviluppo fondamentalmente diversa rispetto a coloro che hanno mantenuto una posizione psicoanalitica classica. Sullivan, fortemente influenzato da George Herbert Mead (1934), credeva che possiamo conoscere noi stessi soltanto in relazione all’altro. Di conseguenza, ha sostenuto in termini radicali che il sé è in realtà una collezione delle valutazioni riflesse di coloro con cui siamo stati in contatto, e consiste in un insieme di ciò che egli ha chiamato modelli “del me e del tu” [“me-you” patterns] (Sullivan, 1953). Per Sullivan, non vi è modo di capire un sé individuale se si prescinde dalla complessa rete di relazioni interpersonali in cui una persona è inevitabilmente invischiata. Conseguenza di questa “teoria del campo” è la ferma convinzione di Sullivan che il sentimento di un nucleo interiore del sé sia una finzione investita narcisisticamente. Infatti Sullivan pensa che gli esseri umani abbiano “tante personalità quante sono le loro relazioni interpersonali” (1950, p. 221; citazione tradotta per questa edizione, N.d.T ). Secondo lui, i nostri sé sono costituiti dal “me buono”, ciò che mi piace di me stesso, dal “me cattivo”, cioè quello che non mi piace, e dal “non me”, cioè aspetti del sé che provocano un tale livello di angoscia da suscitare il bisogno di denegarli tramite la dissociazione. La visione sullivaniana del sé come multiplo, e il suo fare appello a processi dissociativi autoconservativi, hanno costituito le questioni centrali delle prospettive relazionali contemporanee del sé, rappresentate al meglio nei lavori di Philip Bromberg (1998, 2006, 2011) e Donnell Stern (1997, 2010). Sullivan ha sviluppato il concetto del “sistema sé”, per chiarire la configurazione dei tratti di personalità e le operazioni di sicurezza finalizzati a mantenere un relativo senso di sicurezza e stabilità nell’individuo. Questo “sistema del sé” è finalizzato a proteggere la persona dall’essere sopraffatta dalla vergogna e da un’angoscia eccessiva, impiegando meccanismi quali la dissociazione e la disattenzione selettiva . L’enfasi di Sullivan sull’“altro” come fonte di pericolo è in sintonia con le prospettive della psicologia bipersonale e interpersonale contemporanea. Seguendo la tradizione sullivaniana di una prospettiva basata sulla teoria del campo, Bromberg (1998) considera la mente come “una configurazione di stati di consapevolezza mutevoli e non lineari in una continua dialettica con la necessaria illusione di un senso del Sé unitario” (p. 7; trad. it p. 10). Seguendo Sullivan, Bromberg (1998, 2006, 2011) considera le esperienze “non-me” come ubiquitarie ed inevitabili, ed afferma che i processi dissociativi possono costituire una funzione sana e adattiva della mente umana, al servizio di una funzione primaria autoprotettiva, analoga alla rimozione freudiana, o al sistema del sé sullivaniano. Quindi per Bromberg il “sé” è per definizione una collezione di stati “me” e di stati denegati “non me”. Poiché qualche grado di dissociazione è inevitabile, Bromberg sottolinea che il livello di psicopatologia è determinato dal grado di dissociazione fra gli stati del sé, rispetto al quale gli esempi più estremi sono costituiti dalle esperienze psicotiche. La concezione del sé nella teoria del campo relazionale contemporanea ha implicazioni nella comprensione delle interazioni. Per Bromberg ed altri autori relazionali contemporanei (per es. D. B. Stern, E. Levenson) un’interazione fra due sé implica un complesso e
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