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consultazione. Come per il setting esterno, alcuni analisti parlano di un “patto” o di un “contratto” tra l’analista e il paziente (Etchegoyen, 1986). Paziente e analista hanno ruoli, atteggiamenti e compiti simili ma asimmetrici, sia nel setting esterno che in quello interno. È importante rilevare che i due aspetti del setting si influenzano l’un l’altro. Il paziente dovrà accettare le condizioni del setting ed essere disposto a collaborare per quanto può per adempierle. Anche l’analista dovrà acconsentire a conformarsi a queste condizioni. Ogni insuccesso da parte del paziente nel conformarsi sarà oggetto di analisi, e perciò diventerà parte del processo analitico. Comunque il paziente conferisce anche al setting il suo proprio punto di vista, influenzato dalle sue fantasie inconsce, che dovranno essere interpretate dall’analista. L’analista dovrà anche tenere conto di ogni osservazione da parte del paziente sui suoi errori (Limentani, 1966; Rosenfeld, 1987). Ferenczi promosse una maggiore elasticità tecnica; era convinto che il mantenimento di un setting tradizionale nel trattamento dei pazienti più gravi avrebbe potuto mettere a repentaglio l’evoluzione e la sopravvivenza della terapia. Ferenczi (1928) introdusse l’idea di “tatto”, secondo la quale gli analisti potrebbero cambiare la loro tecnica con ogni paziente allo scopo di facilitare il progresso dell’analisi. Comunque, questo non significa che gli analisti possano fare qualsiasi cosa vogliano nella stanza di consultazione. Ferenczi distinse la nozione di tatto analitico dalla bontà. Egli parlò della seconda regola fondamentale della psicoanalisi , secondo la quale coloro che vogliono analizzare altri, devono innanzitutto essi stessi sottoporsi a un’analisi. In questo modo, Ferenczi pensava che le differenze tecniche tra gli analisti potessero scomparire. José Bleger (1967), probabilmente il primo analista che ha compiuto uno studio sistematico sul setting, descrisse la situazione analitica, seguendo Gitelson (1952), come la totalità dei fenomeni che hanno luogo nella relazione analista-paziente. Egli scompone questa situazione come segue: processo : fenomeni che possono essere studiati, analizzati ed interpretati, e inquadramento [enquadre; ingl.: frame]: un non-processo, nel senso che esso è costituito da costanti all’interno dei cui confini può evolvere il processo. Secondo Bleger, quando il paziente incontra il setting proposto dall’analista – l’inquadramento idealmente normale – non è facile scoprire le fantasie inconsce sottostanti che rimangono mute; esse non diventano evidenti fino a che non avviene una rottura del setting. Per Bleger, la fantasia inconscia predominante del paziente è che il setting sia il luogo dove il suo corpo è in fusione col corpo materno primitivo. Per cui, vi è il funzionamento del setting dell’analista come contenitore del setting “muto” del paziente , che veicola la “parte psicotica della personalità”. Bleger intende quest’ultima come l’Io primitivo che è indifferenziato a causa della relazione simbiotica col corpo della madre. Meltzer (1967), nel discutere ciò che egli chiama “la ‘storia naturale’ del processo analitico” (ingl. 10; it. 42), fa una distinzione fra due questioni relative alla tecnica. L’una implica “la realizzazione [gathering: letteralmente “riunione”, “raccolta”] del transfert”; l’altra la “creazione del setting”. Egli distingue questi due punti, sottolineando che, benché l’interpretazione possa essere importante per la “cura” e per lo sviluppo dell’“insight”, essa non è il principale lavoro dell’analista per quanto riguarda l’instaurazione e il mantenimento
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