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e di insight tra analista e paziente nella seduta: “...una felice congiuntura di affetto, fantasia e pensiero, tale da permettere al paziente e a me di comprendere a fondo e bene quanto stava accadendo...”. La descrizione di Antonino Ferro (1996) dei quadranti del setting ha contribuito ad espandere il concetto di setting. Essi sono quattro definizioni principali che, mentre illustrano differenti significati prevalenti, si combinano per costituire il setting come un tutto. Il primo quadrante è l’insieme delle regole formali (lettino, frequenza, onorario, e così via). Il secondo include la condizione mentale dell’analista che, secondo Ferro, varia a seconda delle identificazioni proiettive del paziente ed è una condizione chiave per l’evoluzione dell’analisi. Il terzo quadrante si riferisce al setting in quanto obbiettivo e vede le rotture del setting da parte dell’analizzando come un tentativo di comunicazione, specialmente nel caso dei pazienti più gravi. Qui Ferro sottolinea una prospettiva differente da quella tradizionale, in quanto considera che la trasgressione delle regole può costituire una modalità di comunicazione piuttosto che un manifestazione di acting out. (Anche Limentani, 1966, ha sostenuto questa prospettiva dell’acting out come forma di comunicazione).
IV. SETTING E REGRESSIONE
Il concetto di regressione è un argomento controverso. Per qualche analista che segue la tradizione della Ego Psychology il setting è una condizione nella quale “l’immutabilità di un ambiente costante, passivo, costringe [il paziente] ad adattarsi, cioè a regredire a livelli infantili” (Macalpine, 1950, 525; it. 94), allo scopo di permettere l’analisi della nevrosi di transfert. In contrasto con questa posizione, Winnicott sostiene il punto di vista per cui sono gli aspetti positivi del setting analitico a fornire un ambiente facilitante, un holding, che rende possibile la regressione. L’enfasi è su un ambiente attivo, responsivo, nel quale il setting rappresenta aspetti dell’atteggiamento dell’analista. Winnicott sottolinea l’importanza vitale del setting in quanto fattore terapeutico in se stesso per quei pazienti il cui disturbo evolutivo ha condotto alla formazione di un falso sé (1955). Tali pazienti hanno bisogno di una regressione profonda nel trattamento analitico, in cui il setting fisico e la presenza viva dell’analista forniscono l’ambiente facilitante necessario affinché possa emergere il sano sviluppo del (vero) sé; il trattenersi da interpretazioni premature è parte dell’adattamento che l’analista deve compiere. Melanie Klein (1952, 55; it. 534) definì lo spazio terapeutico come dominato dal transfert, visto come la “ situazione globale ” dell’interazione fra l’analizzando e l’analista, dove l’interpretazione è considerata come lo strumento primario dell’analista nella sua interazione col paziente. La Klein cercò di creare, in alleanza con Freud, uno spazio oggettivo in cui siano libere di emergere nello spazio analitico le proiezioni sia degli oggetti buoni che di quelli cattivi – così come di parti dell’Io. Winnicott descrisse un tipo di setting differente rispetto a quello
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