Club Milano34

interview

Mi accoglie a casa sua, in piena estate, dove si sta ancora riprendendo da un non piccolo problema di salute. «Tut- to risolto, fortunatamente», sono le sue prime parole accompagnate da uno sguardo vispo e un’innegabile voglia di confidarsi. Tullio Dobner è fatto così: un intellettuale appassionato che non si sottrae mai al confronto. Traduttore italiano di Stephen King per tre deca- di esatte e contemporaneamente alle prese con altri nomi (Grisham, Koonz, Barker, Sheldon e altri ancora) in grado di far tremare le classifiche di vendita. Un convitato di pietra, nemmeno così tanto discreto («Ho sempre amato le traduzioni emotive trasudanti perso- nalità»), che ci ha tenuto compagnia per innumerevoli ore. Da un pezzo Dobner si è accasato con la Newton & Compton e a breve tornerà al lavoro ri- dando lustro a due capolavori di H.G. Wells quali La macchina del tempo e La guerra dei mondi . Un bel traguardo di carriera all’insegna, come al solito, del vocabolo giusto. Settanta primavere di cui 47 passate a tradurre di tutto: una vita dedicata alla parola, la tua. Al puro intelletto. Soprattutto una vita dedicata all’in- terposta persona. E comunque non ho mai desiderato altro che questo. Sicuro? Sì. D’altronde ho tradotto tonnellate di romanzi ma, di mio, ho scritto ben poco (una raccolta di racconti – I libri che perdevano le parole – più Schizosofia uscito solo per il web, NdR ). Il fatto è che quando giochi otto ore al giorno con i concetti altrui, alla sera ti ritrovi svuotato di parole tue. Come descriveresti a un profano il tuo mestiere? Come quello di un attore: anch’io, in fondo, mi limito a interpretare un testo creato da qualcun altro. E non potrei fare altrimenti visto che, in campo ar- tistico, non ho mai creduto all’oggetti- vità. Ma così facendo non si corre il rischio

narrativa statunitense. Quando King scrive “semplice” e non abusa di quella sua prosa così chimica e strabordante, beh, non ce n’è davvero per nessuno. Senza dimenticare le affinità personali che ci legano a cominciare dall’anagra- fe. Il romanziere del Maine farà set- tant’anni nel settembre 2017… Sì, King ed io siamo nati nello stesso mese ad appena dodici mesi di distan- za. E oltre al segno zodiacale, vergine, condividiamo anche un identico pathos generazionale. Quella sorta di pessimi- smo di fondo che nel suo caso è coin- ciso con la guerra in Vietnam mentre nel mio è scaturito con la tragedia di piazza Fontana, un crimine che an- cora reclama giustizia. E poi veniamo entrambi dal basso: Stephen scrisse i suoi primi libri in una roulotte mentre io ho cominciato a fare il traduttore in una piccola mansarda di via Previati, in zona Fiera, dove non avevo neppure il fornello a gas! Non c’è proprio niente che vi divide? Beh, anche se non ci siamo mai incon- trati, immagino che a livello di gusti musicali non andremmo granché d’ac- cordo! (ride, NdR ) Lui è un metallaro nell’anima e, quando scrive, spara a tutto volume AC/DC e Ramones. Io non ce la farei mai… Quando lavoro ho bisogno di silenzio o, al massimo, metto in sottofondo un disco di musica rinascimentale. O dei Beatles. La tua ultima traduzione di King, La leggenda del vento, risale ormai al 2012: ti manca? Mi manca come se vedessi la mia fidan- zata storica uscire con un altro uomo. Tempo fa la Sperling ci ha pure pro- vato a farmi correggere una traduzione “kinghiana” realizzata da un loro auto- re. Dopo un’ora avevo già riscritto ex novo tre pagine! Lì ho compreso di non avere più l’obbiettività necessaria per fare una cosa del genere. E così ho detto addio al mio caro, vecchio amico di una vita.

di essere troppo “creativi”? L’importante è non consegnare bozze impersonali. Anche perché al mondo esistono due sole categorie di tradu- zioni: quelle che ci azzeccano e quelle che vanno completamente fuori strada. Una volta “azzeccato” il testo, è quasi necessario aggiungerci un po’ di tuo, un’ipotesi di sensibilità. Anche perché questo rimane un mestiere molto peri- coloso… Addirittura? Già. La nostra resta una lingua ricca ed è triste limitarsi a quelle trecento paro- le che sono sempre il viatico di una tra- duzione fredda e impersonale. Bisogna essere musicali, scavare dentro la pagi- na, adoperare quel determinato modo di dire se il caso lo richiede. E se il testo originale è brutto? Una buona traduzione non lo salverà di certo. Prendi La casa dipinta di Gri- sham a cui lavorai anni fa. Un critico entusiasta mi telefonò dicendomi che avevo tramutato il re del legal thriller in un “grande autore americano”. Com- plimento respinto al mittente: in quel caso fu tutta farina dello stesso Gri- sham che, evidentemente, s’era stufato di scrivere d’avvocati col pilota auto- matico. Fatto sta che nel 1983 esce “Cujo” di Stephen King e Dobner diventa un traduttore “popstar”: ti ci ritrovi? Il termine mi fa sorridere visto che King – prima del boom di It nel 1987 – qua da noi era ancora visto come “uno scrittore di culto” nonostante Carrie, Le Notti di Salem e ovviamente Shining . Il fatto è che alla Sperling & Kupfer erano oltremodo terrorizzati: in Cujo c’era un bambino che faceva una brutta fine e loro non volevano inimicarsi il pubbli- co femminile. Mi chiesero di trovare le parole adatte per le eventuali lettrici- mamme! A libro consegnato in reda- zione tirarono un sospiro di sollievo mentre io trovai l’autore della vita. Perché King e non altri? Perché non ha eguali nel campo della

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