Dizionario Enciclopedico di Psicoanalisi dell'IPA

Loremipsum IDENTIFICAZIONE PROIETTIVA

IPA

TEORIEDELLE RELAZIONI OGGETTUALI

LIBEREASOCIAZIONI

INCONSCIO

PSICOLOGIA DELL’IO

TEORIADELLA COMUNICAZIONE

DIZIONARIO ENCICLOPEDICO INTERREGIONALE DI PSICOANALISI DELL’IPA

INDICE

AMAE....................................................................................................................................... 2 CONFLITTO ......................................................................................................................... 16 CONTENIMENTO: CONTENITORE-CONTENUTO.................................................... 71 CONTROTRANSFERT ....................................................................................................... 86 ENACTMENT ..................................................................................................................... 119 INCONSCIO ........................................................................................................................ 141 INTERSOGGETTIVITÁ ................................................................................................... 228 NACHTRÄGLICHKEIT.................................................................................................... 308 LA PSICOLOGIA DELL’IO ............................................................................................. 346 SÉ .......................................................................................................................................... 449 SETTING (PSICOANALITICO) ...................................................................................... 531 TEORIA DELLA COMUNICAZIONE DI DAVID LIBERMAN ................................. 554 TEORIA DELLE RELAZIONI OGGETTUALI (ORT) ................................................ 567 TRANSFERT....................................................................................................................... 659

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AMAE Voce Tri-Regionale

Consulenti Interregionali: Takayuki Kinugasa (North America), Elias M. da Rocha Barros (Latin America) e Arne Jemstedt (Europe) Co-Chair Coordinatore Interregionale: Eva D. Papiasvili (North America) ______ Traduzione italiana ed editing a cura dei soci della Società Psicoanalitica Italiana. Traduzione: Rachele Mariani Coordinamento ed Editing: Maria Grazia Vassallo

I. DEFINIZIONE INTRODUTTIVA

Amae è una parola Giapponese di uso comune e grammaticalmente è la forma nominale del verbo amaeru . Entrambi i termini derivano da un aggettivo, amai , che significa “di gusto dolce”. Amaeru è la combinazione di un verbo, eru - che significa “ricevere” o “ottenere”- ed il termine amai , per cui il significato originario di amaeru è letteralmente ottenere dolcezza. Nell’uso comune, amaeru si riferisce ad un comportamento infantilizzato, dipendente, che chiede indulgenza al fine di ottenere ciò che si desidera, sia esso affetto, vicinanza fisica, supporto emotivo o concreto, o ancora una concessione. E’ un comportamento che esprime una richiesta di benevolenza e presuppone un certo grado di familiarità o di intima vicinanza. Generalmente un neonato, o un bambino, potrebbe in questo modo coinvolgere la figura materna o il caregiver in una modalità relazionale di tenera dipendenza al fine di ottenere l’appagamento di suoi desideri. Comportamenti amae e amaeru, in Giappone, sono presenti anche al di fuori del contesto familiare e infantile, come ad esempio nelle interazioni interpersonali. Si può evidenziare infatti nelle amicizie strette, nell’intimità delle relazioni di coppia, anche nella famiglia allargata, o ancora all’interno di un piccolo gruppo coeso come tra compagni di classe o di squadra. E’ presente anche in quelle relazioni dove esiste una differenza di potere o di status, come insegnante/studente, capo/subordinato, o colleghi anziano/giovane. In relazione alle diverse situazioni il fenomeno amae è ampiamente accettato, da un lato come un significante della forza e della solidità della relazione, ma da un altro lato potrebbe essere percepito negativamente, come un indicatore dell’immaturità della persona, della sua autoindulgenza, del suo sentirsi in diritto di qualcosa, oppure della sua mancanza di consapevolezza sociale o di buon senso. Nel Dizionario Generale di Psicoanalisi Nord Americano, Salman e Akhtar (2009) definiscono amae come un “termine giapponese, che caratterizza un’interazione dallo schema

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culturalmente definito, non continuativa, frequente, nella quale le consuete regole di appropriatezza e formalità sono sospese, permettendo alle persone di ricevere e dare sostegno all’io in modo affettivo e reciproco” (p.12; citazione tradotta per questa edizione N.d.T.). Questa definizione è stata formulata a partire dalla descrizione del termine di Takeo Doi (1971/73) e ulteriormente sviluppata all’interno del lessico della Psicologia dell’Io da Daniel Freeman (1998), intendendola come una “interattiva regressione reciproca al servizio dell’io, che gratifica e promuove la crescita e lo sviluppo intrapsichico di entrambi i partecipanti” (Freeman, 1998, p.47). Gli editori del Dizionario Giapponese di Psicoanalisi (Okonogi, K, Kitayama, O, Ushijima, S, Kano, R, Kinugasa et al., 2002) sono partiti anche loro dalla definizione di Doi e hanno evidenziato la complessità della dipendenza emotiva, radicata nel preverbale, che costituisce la base dinamica di amae . Nessun dizionario o glossario di altre lingue ufficiali IPA europee o latino- americane include il termine amae, tanto che è rimasto largamente sconosciuto sino ad oggi al più vasto pubblico psicoanalitico. Questa voce si basa su tutte le fonti summenzionate e le espande.

II. SVILUPPO DEL CONCETTO

Come fenomeno psicologico, il concetto di amae è stato introdotto ed evidenziato da Takeo Doi nel suo libro “Anatomia della dipendenza”, che è stato tradotto per il pubblico occidentale nel 1973. Egli descrisse una varietà di comportamenti amae nelle interazioni cliniche e sociali giapponesi, avanzando l’idea di quanto sia importante questo concetto per la comprensione della psicologia giapponese. Tradusse, infatti, amae come ‘dipendenza o dipendenza emotiva’ (1973) e definì il termine amaeru con il significato di ‘dipendere e presupporre la benevolenza di un altro’. Così ritiene che indichi sia “l’impotenza e il desiderio di essere amato” sia “il bisogno di essere amato”, considerandoli equivalenti ai bisogni di dipendenza. L’autore ne vede il prototipo nella psicologia della relazione madre-bambino, quando il piccolo, non più neonato, è diventato in grado di comprendere l’esistenza della madre come indipendente da sé (Doi, 1973). In una pubblicazione successiva Doi (1989) amplia la formulazione psicodinamica di amae : “Un’altra cosa importante sul concetto di amae è che, sebbene sia indicato come uno stato mentale di appagamento che si verifica quando un bisogno d’amore è ricambiato dall’amore di un altro, esso può anche indicare proprio quello stesso bisogno d’amore, dal momento che non si può sempre contare sull’amore dell’altro tanto quanto si desidererebbe. Ne consegue che lo stato di frustrazione, le cui fasi possono essere descritte da un certo numero di parole giapponesi, possa essere definito con lo stesso termine amae - ed è infatti così che lo si chiama - dal momento che effettivamente amae è inteso maggiormente come il desiderio presente nella frustrazione piuttosto che nell’appagamento. E’ per questo che possiamo parlare di due tipi di amae : un amae di tipo primario, quando vi è la certezza di trovare un oggetto disponibile ad

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accogliere la richiesta, e un amae di tipo involuto ( convoluted ), quando non vi è certezza dell’esistenza di un tale oggetto. Il primo tipo è infantile, innocente e tranquillo, mentre il secondo è immaturo, ostinato e richiedente. In poche parole, si potrebbe parlare di un amae buono e uno cattivo…” (Doi, 1989, p. 349; citazione tradotta per questa edizione N.d.T.) L’affermazione di Doi che amae , cioè la dipendenza emotiva, contraddistingue la psicologia giapponese in modi unici ed inequivocabili, ha suscitato sia entusiastica accoglienza che critiche e scetticismo. Ne sono scaturiti dibattiti quali ad esempio: in che modo specifico dovrebbe essere vista la psicologia giapponese? Doi propone che il carattere giapponese è essenzialmente dipendente? Come coniugare il concetto di amae alle teorie psicologiche e psicoanalitiche esistenti? Come il concetto di amae può rivelarsi utile per alla comprensione dello sviluppo umano universale? In che modo il concetto di amae contribuisce a nuovi sviluppi della teoria e pratica psicoanalitica?

III. PROSPETTIVE SOCIO-CULTURALI

Erik Erikson (1950) ha descritto come differenti e specifiche influenze sociali e culturali abbiano portato a diverse modalità di adattamento durante i processi di crescita e sviluppo della psicologia umana. Erikson ha così ampliato gli stadi dello sviluppo psicosessuale formulati da Freud su base biologica, proponendo ulteriori stadi di sviluppo che definì “psicosociali”, successivi alla risoluzione del complesso edipico ed estendendoli a tutto il ciclo di vita. Il concetto di Doi di amae e il suo significato per la comprensione della natura specifica della psicologia giapponese possono essere inquadrati in quest’ottica. Molti ricercatori di scienze sociali e antropologi transculturali hanno messo in rilievo la particolarità della società nipponica e le specifiche forme di adattamento psicologico che la contraddistinguono. Il concetto di amae elaborato da Doi aggiunge una ulteriore dimensione a questo discorso. Si evidenziano delle specifiche caratteristiche della società e della cultura giapponese quali: 1. relazioni sociali gerarchicamente organizzate; 2. orientamento gruppale sopra le distinzioni individuali; 3. separazione tra pubblico e privato, tra relazioni intime e sociali, e come esse si rappresentano in pensieri, sentimenti e comportamenti; 4. enfasi su vergogna (generata dal giudizio esterno) e colpa (espressione di un giudizio interno); 5. evitamento del conflitto e valore dell’armonia;

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6. indulgenza, stile genitoriale responsivo e permissivo durante l’infanzia e prima giovinezza, seguiti da un incremento di rigore nell’assegnazione di ruoli sociali e comportamenti di controllo nel corso degli anni di sviluppo. Come hanno ampiamente osservato gli antropologi culturali - ad esempio Ruth Benedict (1946), lo storico Edwin O. Reischauer (1977), e ancor più specificamente Chie Nakane, l’antropologo giapponese più noto fuori dal suo paese -, la natura verticale della gerarchia è onnipresente nella maggior parte delle relazioni giapponesi. A questo si collega l’osservazione che le caratteristiche sopra menzionate sono il riverbero culturale e psicologico di quattro secoli di un sistema feudale basato, da un punto di vista politico e socio-culturale, su una rigida stratificazione in classi. La modernizzazione a seguito dell’influenza occidentale è iniziata nel tardo XIX secolo e ha subito un’accelerazione dopo la Seconda Guerra Mondiale, con l’istituzione di un governo democratico e con molti cambiamenti sociali nella vita pubblica, politica, economica e tecnologica. Tuttavia, le caratteristiche e i valori della cultura tradizionale perdurano nella vita contemporanea giapponese come sottofondo psicologico. Reischauer (1977) evidenzia la capacità adattativa giapponese al cambiamento e riconosce molte comunanze tra l’Oriente e l’Occidente. Dean C. Barnlund (1975), nella sua analisi culturale comparativa tra gli Stati Uniti e il Giappone sul radicamento di valori culturali di base trasmessi come normativi in una società, definisce amae come rappresentativo “dell’inconscio culturale”. Per la comprensione di amae da questa prospettiva diviene cruciale prendere in considerazione la pratica di accudimento dei bambini, che comporta vicinanza fisica, indulgenza, responsività, il prendersene cura con profonda empatia da parte della madre e la disponibilità di altri caregiver intorno al bambino. Dato il limitato spazio dell’isola, la vicinanza di altre persone e la necessità di vivere gli uni affianco agli altri è una condizione normale di vita in Giappone. Non solo la famiglia estesa, ma anche i vicini e la comunità circostante sono contemplate nella vita del bambino sin da subito. Ogni adulto nel vicinato è chiamato oji-san, zio , o oba-san, zia , e i bambini più grandi sono chiamati onei-san , sorella maggiore, o onii-san , fratello maggiore. Di fatto essi costituiscono potenziali caregiver nella vita del bambino, promuovendo un senso di sicurezza nell’appartenenza al gruppo. Alan Roland (1991) ha in particolare contrapposto il concetto orientale di “sé familiare” con l’occidentale “sé individualista”. Il “sé familiare” è predominante nella psiche giapponese e sottilmente radicato nelle relazioni affettive gerarchiche della famiglia e del gruppo. Reischauer (1977) osserva che i giapponesi non sono tanto attaccati alla famiglia ma piuttosto all’intero gruppo circostante. Questo potrebbe suggerire un “sé gruppale”, nel senso che un bambino sin da piccolissimo può identificarsi e interiorizzare il suo posto in un gruppo. Esemplificativo di questa dinamica è il tradizionale rito giapponese chiamato Shichi- Go- San in cui, al compimento di tre, cinque e sette anni, i bambini abbigliati nei costumi tradizionali vengono accompagnati nel santuario del quartiere e festeggiati dalla comunità. Gli vengono offerti in dono giochi e dolcetti in una celebrazione collettiva del rito di passaggio dell’infanzia.

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IV. IMPLICAZIONI PSICOANALITICHE DEL CONCETTO DI AMAE

Come evidenziato in precedenza, mentre per molti versi si è rivelata accurata e chiarificante la descrizione del particolare fenomeno denominato amae all’interno della società giapponese, individuandolo sia nelle relazioni personali che nelle interazioni cliniche, la prima definizione di Doi del concetto di amae (1973) come “bisogno di dipendenza affettiva dagli altri” e “desiderio di essere amati” ha innescato un ampio dibattito sugli aspetti teorici e clinici. Dal punto di vista dello sviluppo, amae precede l’acquisizione del linguaggio nel bambino; per esempio un giapponese direbbe di un bebè che attivamente ricerca e desidera sua madre che “questo bambino è così emotivamente dipendente ( amaeru )”. Quando il neonato continua a fare esperienza del proprio desiderio per la presenza della madre, questa configurazione emotiva viene posta al centro della sua vita affettiva conscia ed inconscia e può essere paragonata a ciò che Freud definisce “sessualità, introducendo un concetto che è proprio della psicoanalisi: “Adoperiamo la parola sessualità nello stesso ampio senso nel quale la lingua tedesca usa la parola lieben [amare]” (Freud, 1910 p. 327). Con questo significato i giapponesi pensano il complesso edipico, dove amore e sesso sono intrecciati, anche se non esistono parole come lieben o come amare nella loro lingua. Allo stesso modo si può comprendere che “ amae ” ha costituito la corrente principale della vita affettiva per quanto riguarda le esperienze precedenti al complesso edipico, e questo vale non solo in Giappone, ma anche nel resto del mondo, dove la parola “ amae ” non esiste. Nonostante amae sia un concetto verbale simile ad amare, tuttavia il suo significato è in parte differente in quanto è privo della connotazione sessuale. Inoltre ci sono evidenze che elementi amae siano contenuti in diversi stati psichici caratterizzati da ambivalenza. Se così fosse si potrebbe paragonare amae a molteplici concetti psicoanalitici ben noti. Freud afferma che ci sono due correnti di amore: una corrente di tenerezza e una sensuale. “Di queste due, la corrente di tenerezza è più antica. Essa deriva dai primissimi anni dell’infanzia, si è formata sul terreno degli interessi della pulsione di autoconservazione, e si rivolge ai membri della famiglia del bambino o a coloro che di lui si prendono cura…”(Freud, 1912, p. 422). Questo corrisponderebbe al radicamento di amae nella pulsione di autoconservazione. La corrente di tenerezza deriverebbe da ciò che più tardi è stato assorbito nel concetto di narcisismo (Freud, 1914). Qui Freud scrive che, sebbene il narcisismo primario non possa essere confermato dall’osservazione diretta, possa però essere dedotto dall’“atteggiamento dei genitori particolarmente teneri verso i loro figli […] che è la reviviscenza e la riproduzione del proprio narcisismo, al quale i genitori stessi hanno da tempo rinunciato” (Freud, 1914 p. 460-1). Mentre Freud (1930) più tardi abbandonò il concetto di pulsione di autoconservazione e giunse alla conclusione che la tenerezza era una manifestazione di Eros (pulsione sessuale) il cui fine originario è rimosso, Doi propone, invece, che amae corrisponderebbe alla pulsione di autoconservazione in relazione alla prima teorizzazione di Freud, e definisce amae come un derivato pulsionale del bisogno di dipendenza.

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Inoltre, Freud (1921) considerò l’identificazione come la prima espressione di un legame emotivo con un’altra persona, che è ambivalente sin dal principio. Così definita, l’identificazione freudiana potrebbe trovare corrispondenze negli aspetti di identificazione e di ambivalenza implicati in amae . Nelle elaborazioni successive del concetto all’interno della matrice teorica delle relazioni oggettuali, Doi (1989, p.350) ha ribadito che amae è relazione oggettuale sin dall’inizio. Mentre ciò potrebbe non corrispondere al concetto freudiano di narcisismo primario, secondo Doi amae : “calza molto bene con qualsiasi stato mentale che si possa chiamare narcisistico” (ibid, p.350; citazione tradotta per questa edizione N.d.T.). In questo senso le caratteristiche narcisistiche che definiscono il tipo di amae “ involuto ” sono rappresentate dall’egoismo, l’ostinazione e la richiestività. “Nella stessa prospettiva - scrive Doi (1989) - il nuovo concetto di oggetto-sé definito da Kohut come ‘quegli oggetti arcaici investiti di libido narcisistica’ (1971, p.13) sarà più facilmente compresa alla luce della psicologia di amae , poiché ‘la libido narcisistica’ non è altro che amae di tipo involuto” (Doi, 1989, p. 351; citazione tradotta per questa edizione N.d.T.). In questo senso, gli analisti giapponesi vedono nel concetto kohuttiano di ‘bisogni d’oggetto-sé’ (Kohut, 1971) un concetto pressoché equivalente ad amae . Anche l’osservazione di Balint che “nella fase finale del trattamento, i pazienti cominciano ad esprimere i desideri istintuali infantili da lungo tempo dimenticati e a ricercare le loro gratificazioni nell’ambiente” (Balint, 1935 p. 178) può essere rilevante, perché indicherebbe che “l’ amae più arcaico si manifesterà solo dopo che le difese narcisistiche saranno state completamente affrontate nel corso dell’analisi” (Doi, 1989; p. 350; citazione tradotta per questa edizione N.d.T.) . . Sulla base delle teorie di Freud e Ferenczi, le idee elaborate da Balint sull’ ‘amore passivo d’oggetto’ e sull’amore primario sono concettualmente le più vicine ad “ amae ”. Doi ha considerato che le lingue indo-europee non distinguono chiaramente tra due tipi di amore oggettuale, attivo e passivo. Sebbene lo scopo sia sempre primariamente passivo (essere amati), se l’ambiente fornisce sufficiente amore e accettazione del bambino per mitigare la frustrazione, egli può sviluppare la capacità di “dare amore” attivamente al fine di riceverne (la configurazione di “amore attivo d’oggetto”). In termini clinici, c’è un collegamento tra amae primario e la definizione di Balint di ‘regressione benigna’, così come tra amae ‘involuto’ e la definizione di ‘regressione maligna’. Sebbene Fairbairn (1952) abbia in generale valorizzato la dipendenza nello sviluppo primario, non ha adottato l’idea di bisogni di dipendenza all’interno del suo sistema di relazioni oggettuali. I concetti della Klein (1952) di invidia ( higami / jaundice) e di identificazione proiettiva (1957) possono essere visti come una forma distorta di amae, quando condividono con esso lo stesso oggetto. Molti analisti giapponesi vedono Bion (1961) come “profeta” del concetto di amae teorizzato da Doi all’interno nel contesto delle dinamiche gruppali. Infatti, Bion ha individuato un sentimento di sicurezza in ciascuna delle configurazioni emotive che accompagnano le fantasie gruppali relative ai tre assunti di base: dipendenza, attacco-fuga e accoppiamento. Analogamente, il concetto di Bion di “contenitore” e “contenuto”, cosi come il concetto di “holding” di Winnicott, o di “adattamento” di Hartmann, o ancora di

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“interaffettività” di Stern, mostrano somiglianze concettuali di base con amae e ne condividono l’oggetto. Tali concetti rimandano differenti punti di vista sulla predisposizione del neonato alla dipendenza dai genitori, clinicamente rilevante per la matrice intersoggettiva del transfert- controtransfert all’interno del processo psicoanalitico.

V. ULTERIORI PROSPETTIVE PSICOANALITICHE DELLO SVILUPPO

Dalla prospettiva dinamica dello sviluppo, è importante sottolineare che Doi (1971) individua l’origine di amae nella relazione madre-bambino, a partire però dal momento in cui l’infante inizia a concepire la propria esistenza come indipendente dalla madre pur riconoscendo in lei l’indispensabile fonte di gratificazione. Ciò suggerisce che amae origina in uno stadio di sviluppo in cui la differenziazione dell’io - in termini di cognizione, giudizio e identificazione - ha già avuto luogo e la costanza d’oggetto si è già stabilita. Questo implica che la fase di sviluppo separazione-individuazione della Mahler (1975) è in corso, avendo superato e negoziato con successo la fase simbiotica e la sottofase di sperimentazione. La madre esiste, dunque, come un essere separato, il cui benevolo e indulgente compiacersi del bambino è stato interiorizzato. Se questa è la situazione, anche la struttura psichica del super-io si trova in fase di strutturazione e le pratiche educative prevalenti in Giappone sembrano sostenere questa ipotesi: una notevole attenzione materna, insieme ad una ricettività empatica non-verbale, sia fisica che emotiva, sono tutte condizioni disponibili per assicurare un agevole passaggio evolutivo dalla fase simbiotica alla fase di separazione – individuazione. Recenti sviluppi dell’ infant research (Stern, 1985) così come della Psicologia del Sé, incoraggiano questo atteggiamento genitoriale per promuovere una crescita orientata alla formazione di un senso di sicurezza del proprio sé. Nel riepilogo schematico di Gertrude e Rubin Blanck (1994) sullo sviluppo infantile, potremmo rintracciare la comparsa di amae durante il processo di neutralizzazione della pulsione aggressiva per supportare il processo di separazione-individuazione. A partire dall’acquisizione del controllo sfinterico, l’addestramento all’uso della toilette e l’espressione di sé attraverso l’assertività fallica, si raggiungerà la modulazione della pulsione aggressiva promossa dallo sviluppo del super-io) . Diversamente da questo tipico scenario occidentale, Reischauer (1977) osserva che l’addestramento all’uso della toilette e la disciplina comportamentale dei bambini giapponesi è portata avanti sistematicamente con premura e attenzione, utilizzando esempi, incoraggiamenti e sollecitazioni. Questi metodi promuovono una identificazione del bambino con il caregiver, favorendo la modulazione delle pulsioni aggressive e la rinuncia ai bisogni individuali in favore dell’adattamento alle aspettative esterne, giungendo così per altre vie alla formazione del super-io. Tuttavia regole esterne frequentemente restrittive e via via più complesse, ruoli, richieste di armonia, obbedienza etc. costituiscono valori culturali a cui è difficile aderire , e ciò causa un considerevole stress in una

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psiche soggettiva ancora fragile. La vergogna del giudizio esterno e la minaccia del ritiro del legame d’amore potrebbe essere utilizzato per sollecitare una aderenza alle richieste del super- io di rinunciare ai bisogni individuali infantili. In queste negoziazioni conflittuali tra il super-io e l’es, la regressione potrebbe verificarsi nello stadio di sviluppo del riavvicinamento, dove il bambino cerca temporaneamente la rassicurazione del conforto simbiotico materno, prima di muoversi di nuovo verso il percorso individuale di separazione. Sia Akthar (2009) che Freeman (1998) hanno descritto l’aspetto di rifornimento affettivo proprio della funzione di amae ; infatti, l’osservazione di Freeman supporta l’ipotesi che amae sia un desiderio temporaneo, intermittente, e pone l’enfasi sul reciproco e mutuo beneficio dell’interazione di tipo amae . Se si estende questa considerazione sul carattere di reciprocità dell’interazione di tipo amae , si comprende anche che amae può essere attivato inizialmente dalla parte “dipendente” a beneficio dell’altra parte. Per esempio, chi risulta come colui che “riceve”nell’interazione amae potrebbe consciamente o inconsciamente percepire - in quel comportamento di cui è fatto oggetto - un ansioso bisogno materno di essere rassicurata dal bambino, in quanto il bisogno di separazione di quest’ultimo potrebbe essere sentito dalla madre come un rifiuto; amae, quindi , potrebbe soddisfare il bisogno di un capo insicuro di sentirsi potente su di un subordinato compiacente, o ancora il bisogno di un genitore anziano di avere conferma del proprio valore da parte di un figlio già cresciuto e autonomo. Per questa ragione, a volte il comportamento ‘amichevole’ di amae potrebbe mascherare una richiesta aggressiva, sfidante, formulata in una maniera appropriatamente dipendente, che potrebbe corrispondere a quello che Doi (1989) definisce come “ amae negativo/involuto”. Mentre l’originale definizione di Doi di amae (1971, 1973) come “impotente desiderio di essere amati” sottolinea l’aspetto della passività, questa stessa dimensione passiva sembra avere una sua propria complessità. Nello stesso modo di Doi (1971, 1973,1989), Balint (1935/1965; 1968) vede amae come un bisogno e desiderio d’amore a tutti i costi, primario, biologicamente determinato, mentre Bethelard e Young-Bruehl (1998) intendono il concetto di amae proposto da Doi come aspettativa di venir amati con indulgenza - essi usano il termine cherishment [benevolenza, carità] - e fondano questa aspettativa su una base istintuale presente già alla nascita. Questi autori, così come Doi prima di loro, in relazione al concetto di amae hanno proposto di riconsiderare l’ipotesi della pulsione di autoconservazione dell’io. In seguito a molti recenti studi dell’ infant research che indicano una maggiore capacità del neonato di essere attivamente ingaggiato nella relazione, lo spettro “passivo-attivo’, che attiene ad amae , necessiterebbe di maggiori approfondimenti. Nel contesto di amae, l’attività che si può osservare a livello di comportamento - come per esempio negli studi Bowlby sull’attaccamento (1971) - riflette una esperienza interna che con l’attaccamento ha la sua manifestazione comportamentale (Doi, 1989). Potremmo ipotizzare che psicoanaliticamente amae si presenta come un concetto stratificato, che rappresenta una spinta attiva di carattere istintuale-emotiva di ricevere amore passivamente, di essere coccolati. Un’alternativa alla definizione di amae come “desiderio - pulsione” formulata da Doi (1971) comporterebbe una riformulazione di amae come una specifica forma di difesa

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particolarmente presente nella psicologia giapponese, sebbene certamente possa essere rintracciata ovunque, sia in Oriente che ad Occidente. In questo modo, allora, potremmo considerare amae come una operazione difensiva dell’io, una “richiesta di amorevolezza- concessioni”, che media tra le richieste del super-io e quelle dell’es o del desiderio individuale, ovunque esse si collochino nel corso dell’esistenza. Questa forma di difesa dell’io sarebbe quindi necessaria per adattarsi ad una società rigida, che esige un’inflessibile conformità alle richieste del super-io. L’ordine relazionale gerarchico, l’orientamento gruppale, insieme alla stretta osservanza delle regole, dei ruoli, delle condotte, dove i pensieri e le emozioni intimi sono tenuti segreti, e ancora dove i conflitti sono risolti attraverso la vergogna, tutto sembra essere il modo di far fronte ad una formazione superegoica generata da una società feudale. Al fine di far fronte a queste richieste superegoiche così rigide ed esigenti, amae ricorre ad una comunicazione emotiva non –verbale e a risposte empatiche di “tenera/dolce” comprensione, concessione ed indulgenza, come necessaria difesa contro la pulsione aggressiva o l’ansia per la potenziale perdita dell’oggetto. La mediazione dell’io ad opera di amae crea uno spazio per una vita emotiva privata e consente delle strade per l’espressione dei desideri umani individuali e apre canali per l’espressione individuale delle pulsioni libidiche o aggressive proprie degli esseri umani. Amae è radicato nell’identificazione con l’amorevole caretaker delle esperienze prevebali, capace di intuire bisogni e desideri emotivi del bambino ai quali risponde con empatia, analogamente forse a quanto espresso da Winnicott con il concetto di ”preoccupazione materna primaria” che caratterizza la madre “sufficientemente buona”. In questo contesto, la differenziazione di Winnicott tra la madre-ambiente che fornisce vicinanza all’io (holding, tenerezza, empatia), e la madre-oggetto verso cui gli impulsi dell’es/pulsioni sono diretti, potrebbe rappresentare la successiva versione/declinazione, dal punto di vista delle relazioni oggettuali, della divisione dell’amore in una corrente di tenerezza e una di sensualità operata inizialmente da Freud. Le comunicazioni comportamentali di amae e amaeru possono essere utilizzate in una ampia varietà di operazioni difensive come la rimozione, regressione totale o parziale, annullamento, formazione reattiva, ‘mutuo segreto’, o anche come strada per la sublimazione. All’interno di questa definizione di amae come difesa-adattamento, inoltre, è implicata la nozione di “reciprocità” dal punto di vista evolutivo, relazionale e transferale, e si potrebbero applicare il concetto di Hartmann (1958) di adattamento madre e bambino, l’idea di Winnicott (1965) di “ambiente contenitivo”, così come il concetto di Bion (1962) di ‘contenitore/contenuto’, quello di l’oggetto-sé di Kohut, e di ‘inter-affettività’ di Stern (1985). Comportamenti di tipo amae possono manifestarsi in tutto il corso dell’esistenza ogni qualvolta che i desideri e i bisogni individuali entrano in conflitto con le restrizioni culturali e superegoiche.

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VI. CONCLUSIONE

Consegue da quanto detto che i comportamenti e gli atteggiamenti amae non possono essere considerati solo come una espressione di semplici bisogni di dipendenza. E’ proficuo vederli all’interno di un complesso mutamento contestuale sia della pulsione/desiderio che della configurazione difensiva. Questa visione complessa è applicabile specialmente all’interazione transferale. La comparsa di amae nella diade clinica potrebbe indicare un transfert positivo di sincerità e fiducia crescente verso l’analista, che potrebbe facilitare l’alleanza di lavoro. Doi (1989) afferma, infatti, che al di là della motivazione cosciente che porta il paziente a cercare il trattamento psicoanalitico, la motivazione inconscia sottostante è qualcosa che ha a che fare con amae e alla fine, nel tempo, questo diventa il nucleo del transfert. Tuttavia i clinici devono essere attenti alla natura gerarchica del transfert soprattutto nella situazione clinica giapponese oltre che in ogni setting psicoanalitico, ed essere sensibili e in sintonia con la comunicazione non-verbale o indiretta sia di amae positivo che di amae negativo, specialmente se concettualizziamo amae come espressione di bisogni primari, spinte pulsionali, processi difensivi, o come una complessa configurazione dinamica- evolutiva che comprende tutti questi aspetti. Ugualmente, l’orientamento gruppale dei pazienti giapponesi non può semplicemente essere inteso come una mancanza di confini o di individuazione, come potrebbe essere interpretato semplicisticamente dalla cultura occidentale. Sebbene siamo in debito con la scoperta del concetto di amae allo specifico contesto giapponese, si può intravedere questo fenomeno con gradi diversi in differenti culture. All’interno del contesto psicologico gruppale, esso è collegato in modi complessi al peculiare bisogno dell’individuo separato di vivere e di appartenere ad un contesto gruppale specifico. Evolutivamente e clinicamente, l’interna dinamica interattiva di amae - in cui risuona l’eco del rifornimento materno primario, del contenimento e dell’holding - si estende per tutto l’arco di vita dell’individuo (Doi, 1989; Freeman, 1998). Il contributo determinante di Doi su amae necessita di venir apprezzato come concetto evolutivo e clinico elaborato in una Regione IPA, specifico della la cultura giapponese ma di portata globale, capace di arricchire il panorama teorico e la sensibilità clinica al di là dei confini geografici, delle culture psicoanalitiche, e delle collocazioni individuali.

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BIBLIOGRAFIA

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Consulenti e contributori regionali

Nord America: scritto in collaborazione da Takayuki Kinugasa, MD e i seguenti membri della Società Psicoanalitica del Giappone: Nobuko Meaders, LCSW; Linda A. Mayers, PhD; Eva D. Papiasvili, PhD, ABPP

Europa: Revisione di Arne Jemstedt, MD, e i consulenti europei

America Latina: Revisione di Elias M. da Rocha Barros, Dipl. Psych., e i consulenti latino americani

Co-Presidente Coordinatore Interregionale: Eva D. Papiasvili, PhD, ABPP

Assistenza editoriale speciale addizionale : Jessi Suzuki, M.Sc.

Il Dizionario Enciclopedico Interregionale di Psicoanalisi dell’IPA, è distribuito con licenza Creative Commons CC-BY-NC-ND. I diritti fondamentali restano agli autori (la stessa IPA e i contributori membri IPA), tuttavia il materiale può essere usato da terzi, purché non per uso commerciale, riconoscendo completa attribuzione all’IPA (compresi il riferimento al seguente URL www.ipa.world/IPA/Encyclopedic_Dictionary) con riproduzione verbatim, non in modo derivato, editato o in forma mista. Cliccare qui per visualizzare termini e condizioni.

Traduzione italiana ed editing a cura dei soci della Società Psicoanalitica Italiana. Traduzione : Dott.ssa Rachele Mariani Coordinamento ed Editing : Dott.ssa Maria Grazia Vassallo

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CONFLITTO Voce Tri-Regionale

Consulenti Interregionali: Christine Diercks (Europa), Daniel Traub-Werner (Nord America) e Héctor Cothros (America Latina) Co-Chair Coordinatore Interregionale: Eva D. Papiasvili ______ Traduzione italiana ed editing a cura dei soci della Società Psicoanalitica Italiana. Traduzione: Maria Pina Colazzo, Luisa Masina, Laura Ravaioli, Grazia Venturi Coordinamento ed Editing: Maria Grazia Vassallo

“…….. la nostra vita mentale scaturisce da questi due opposti” (Freud, lettera a W. Fliess del 19 febbraio del 1899; in Freud, S.1886-1899, p.382)

I. INTRODUZIONE E DEFINIZIONI

Freud inaugurò la psicoanalisi sul concetto fondante di conflitto psichico - il funzionamento della mente umana che riflette l’interazione di forze e tendenze opposte. La psicoanalisi pone particolare accento sugli effetti dei conflitti inconsci, definiti come interazioni tra forze che si svolgono nella mente e di cui l’individuo non è consapevole. In un conflitto, desideri, sentimenti, bisogni, interessi, idee e valori opposti si confrontano gli uni con gli altri. Nella teoria psicoanalitica il conflitto psichico è al centro delle dinamiche della mente umana e, nella la prospettiva classica, viene alimentato dall’energia istintuale (pulsionale) e mediato da fantasie investite affettivamente. Tutti i processi mentali sono basati sull’interazione tra forze psichiche in conflitto, che a loro volta si pongono in una complessa interazione con gli stimoli esterni. Oggetto primario della psicoanalisi sono gli aspetti inconsci e latenti del conflitto psichico, fondati in definitiva nei desideri infantili repressi. Questi contenuti inconsci riemergono in forme distorte nei sogni, nelle paraprassie, nei sintomi e nelle manifestazioni della civiltà e della cultura. Per Freud, il conflitto di base della psicoanalisi è il Conflitto Edipico. Questo conflitto – che si colloca tra desiderio infantile e proibizione – è costitutivo per le dinamiche e le manifestazioni della vita psichica. In aggiunta alle sue qualità dinamiche, il conflitto ha anche

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vari assetti metapsicologici: topografici (conscio, pre-conscio, inconscio), economici (iperstimolazione sensoriale, principio di realtà e principio di piacere), genetici (che dipendono dallo sviluppo delle funzioni dell’Io) e strutturali (conflitti tra Io, Super-Io ed Es). Inoltre, il Conflitto Edipico si colloca all’interno del dualismo istinto-pulsione (pulsione sessuale / pulsione di autoconservazione, libido narcisistica / pulsione di vita, libido oggettuale / pulsione di morte). Le concettualizzazioni formulate dai teorici delle Relazioni Oggettuali ampliano l’area in cui questi conflitti si svolgono, dirigendo l’attenzione sulle caratteristiche delle relazioni (internalizzate) tra il sé e gli oggetti. La possibilità che un conflitto diventi accessibile alla coscienza e sia quindi potenzialmente elaborabile in modo realistico, o al contrario se esso debba essere rimosso, dipende dalla potenza delle forze istintuali [pulsioni] coinvolte, dalle capacità mentali dell’individuo di farvi fronte e dalle condizioni ambientali. Estrapolando e ampliando quanto riportato in dizionari e contributi contemporanei nordamericani, europei e latinoamericani (Akhtar 2009, Auchincloss and Samberg 2012; Laplanche e Pontalis 1973, Skelton 2006; Borensztejn 2014), i conflitti (inconsci) possono essere concettualizzati in base alle seguenti classificazioni binarie: 1. Conflitti esterni vs. conflitti interni/intrapsichici: con i primi si intendono i conflitti tra l’individuo e il suo ambiente, con i secondi quelli all’interno della propria psiche. 2. Conflitti esternalizzati vs. internalizzati: con la prima definizione si indicano i conflitti interni che vengono trasposti sulla realtà esterna; con la seconda i problemi psichici causati dall’internalizzazione di costrizioni ambientali che si oppongono ai desideri e alle pulsioni dell’individuo. 3. Conflitti evolutivi vs. conflitti anacronistici: i primi sono i conflitti fisiologici, fase-specifici, trasformativi in senso evolutivo e causati dall’opposizione dei genitori ai desideri del bambino, o dai desideri contradittori del bambino stesso (Nagera, 1966). I conflitti anacronistici, invece, non sono specifici di una determinata età e possono sottendere delle psicopatologie nell’adulto. Questa contrapposizione è simile per certi versi a quella operata da Laplanche e Pontalis (1973) tra conflitti edipici vs. conflitti difensivi. 4. Conflitti intersistemici vs. conflitti intra-sistemici: con intersistemici ci si riferisce alla tensione tra l’Es e l’Io o tra l’Io e il Super-Io (Freud, 1923, 1926); con intra- sistemici (Hartman, 1939; Freud, A. 1965; Laplanche 1973 ) ci si riferisce invece al conflitto tra differenti tendenze istintuali (amore-aggressività), o tra diversi attributi e funzioni dell’Io (attività-passività), o tra differenti dettami del Super-Io (modestia -successo).

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5. Conflitto strutturale vs. conflitto riguardante le relazioni oggettuali: il primo si riferisce ad una stressante disparità di intenti tra le tre strutture psichiche maggiori, ossia l’Es, l’Io e il Super-Io (Freud 1926), sperimentata come pienamente appartenente al sè dell’individuo. Il secondo, invece, si riferisce a un conflitto che si svolge all’interno di uno spazio psichico che è antecedente a tale differenziazione strutturale (Dorpat, 1976; Kernberg, 1983, 2004). Un’altra formulazione di questa dicotomia è conflitto edipico vs. conflitto pre- edipico. 6. Conflitto di tipo oppositivo vs. conflitto del tipo dilemma della scelta (Rangell, 1963); oppure, in analogia, conflitti convergenti vs. conflitti divergenti. (Kris, A. 1984, 1985). Nel primo caso si intendono i conflitti tra forze intra-psichiche che si possono integrare tramite un compromesso (una formazione di compromesso); nel secondo, a cui a volte ci si riferisce come a conflitti ‘o/o’, si intendono quelli dove tale negoziazione risulta difficile e si è obbligati a scegliere una delle due opzioni, con la conseguenza del lutto e della rinuncia per la scelta alternativa. Esiste un’ampia varietà di orientamenti psicoanalitici in tutto il mondo, con differenze complesse e sovrapposizioni , e con diversi gradi di importanza attribuita al conflitto. Ad un estremo di questo spettro si collocano gli orientamenti freudiani e kleiniani contemporanei, che continuano a ritenere il conflitto un concetto centrale per loro formulazione dello sviluppo e del funzionamento psichico. All’altro estremo dello spettro troviamo la prospettiva della Psicologia del Sé di Kohut, una teoria dello sviluppo basata sulle carenze e sullo sforzo per costruire una struttura psichica; questa posizione propone un paradigma completamente diverso, in cui la nozione di conflitto passa in secondo piano a parte un breve accenno al conflitto tra genitore e bambino su differenti bisogni relativi all’oggetto-sé . Il modo con cui viene concepito il conflitto è uno dei fattori determinanti sia dello sviluppo del pensiero di Freud, sia dello sviluppo delle teorie psicoanalitiche dopo Freud.

II. FASI DELLO SVILUPPO TEORICO: FREUD

Seguendo i cambiamenti nella concettualizzazione del conflitto in Freud, si possono identificare diversi periodi nello sviluppo della sua teoria. Appare indicativo il modo particolare in cui tre diverse psicopatologie cercano di organizzare i loro conflitti . Gli isterici convertono la lotta tra la sessualità e la società in sintomi fisici, creando un conflitto tra la mente e il corpo. Gli individui ossessivi spostano la lotta tra un’idea e il suo affetto verso un’ossessione apparentemente innocua. I pazienti paranoidi proiettano le loro esperienze intollerabili sul mondo esterno, creando un conflitto tra il mondo interno e il mondo esterno. Lo studio di questi modi unici di risolvere in modo inadeguato i conflitti psichici andò gradualmente a definire fasi successive dello sviluppo della teoria.

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II. A. Il Trauma e il Periodo Catartico Pre-Analitico (1893-1899) Durante questo periodo, Freud si interessa ai conflitti tra affetti associati ad eventi traumatici ed a proibizioni morali della società, definendoli conflitti esterno-interno e interpersonali, il che implica la nozione di forze interne che si oppongono (Freud, 1893-1895). Nel 1899, paragonando i sogni e i sintomi isterici, Freud ricorda la sua posizione del 1894 sul conflitto: “non solo il sogno è un soddisfacimento di desiderio, ma lo è anche l’attacco isterico…. mi era parso tempo fa…. Realtà – soddisfacimento di desiderio: la nostra vita mentale scaturisce da questi due opposti” (Freud, 1899, Lettere a Fliess, p. 382). Nei suoi primi lavori con le isteriche, Freud scoprì che i loro desideri sessuali si scontravano con le norme della società e che la risoluzione patologica di questo conflitto era il sintomo. I sintomi hanno origine come tentativi inadeguati per risolvere i conflitti: “… i pazienti… vi era stata sanità psichica fino al momento in cui nella loro vita ideativa si era presentato un caso di incompatibilità, ossia fino a quando al loro Io non si era presentata un’esperienza, una rappresentazione, una sensazione che aveva suscitato un affetto talmente penoso, che il soggetto aveva deciso di dimenticarla, convinto di non avere la forza necessaria a risolvere, per lavoro mentale, il contrasto esistente tra questa rappresentazione incompatibile e il proprio Io.” (Freud, Opere, Vol.2, 1894a, p. 123, corsivo originale). Ispirati dalle esperienze di Josef Breuer con Anna O. e dalle spiegazioni di Charcot della paralisi isterica post-traumatica - nonché dalla induzione, e risoluzione sperimentale, di paralisi isteriche tramite suggestione ipnotica- Freud e Breuer (Freud e Breuer, 1895) ritenevano che nell’isteria di conversione emergessero circostanze mentali specifiche, in cui affetti violenti e traumatici, impossibilitati ad essere abreagiti, venivano convertiti in sintomi fisici. Questi sintomi trovano un’espressione fisica ma non sono fisici in origine: essi servono solo ad esprimere, simbolicamente, l’evento che ha provocato lo sviluppo dell’isteria. La strada verso il ricordo dell’evento iniziale era stata interrotta, dissociata dalla coscienza della veglia. Freud scrisse: “Nella nevrosi traumatica, infatti, non la lesione fisica in sé modesta è la vera causa della malattia, ma lo spavento - il trauma psichico. In maniera analoga, dalle nostre ricerche, per molti se non per la maggior parte dei sintomi isterici risultano fatti determinanti, che si devono descrivere come traumi psichici. Può agire come trauma qualsiasi esperienza provochi gli affetti penosi del terrore, dell’angoscia, della vergogna, del dolore psichico...” (Freud e Breuer, Opere, Vol.1, 1895, p. 177). Le idee e i desideri che sono in conflitto con altri valori, se soppressi, possono produrre sintomi. Nel 1894, Freud formulò un modello iniziale del conflitto che valeva per la formazione dei sintomi di conversione nell’isteria, nelle nevrosi ossessive e nelle fobie, tutte unificate sotto la classificazione di neuro-psicosi di difesa (Freud 1894 a, b). A differenza della formazione di conflitto, propria delle neuro-psicosi di difesa, Freud concepiva i sintomi delle nevrosi attuali - incluse la nevrosi d’ansia e la nevrastenia (Freud 1894 c; Freud 1898) - non come espressione di un processo mentale normalmente funzionante ma come l’effetto diretto di una trasformazione tossica della libido, causata da un’energia sessuale non scaricata adeguatamente. Inoltre diventò chiaro per Freud che le idee intollerabili delle sue pazienti “si sviluppano per lo più sul terreno delle esperienze e delle sensazioni sessuali” (Freud 1894,

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